A song for our ancestors di Alessandra Book – Amy d Arte Spazio Milano di Anna d’Ambrosio
A Song For Our Ancestors. una prospettiva
Il desiderio di mio nonno Augusto era di far disperdere le sue ceneri nel Fiume Tevere, nel punto in cui da ragazzo si tuffava.
Ho intrapreso un viaggio che segue il percorso ipotetico delle sue ceneri fino al punto in cui il Tevere sfocia, Ostia, che diventa un luogo d’addio.
Augusto si confonde ora con le anime del mondo che hanno creduto al viaggio e al ricongiungimento con la natura.
Così Alessandra Book ci introduce al suo progetto fotografico A Song for Our Ancestors. Il punto del Tevere da dove il nonno Augusto ha compiuto il suo ultimo tuffo, divenendo uno con il fluire regolare del paesaggio, è il punto del tempo dal quale di dipana un percorso di riconoscimento del familiare, fino a un saluto in prossimità della foce che ha la sostanza di un abbandono al divenire. Un familiare silenzioso, che affiora dalla spuma e dai luccichii del fiume, ma che ha poi bisogno di essere rintracciato nell’ambiente domestico, in un viaggio che riflette costantemente l’interiorità affettiva nella tenerezza carezzevole della natura.
Ci sono stati artisti notevoli che hanno raggiunto alcune delle proprie vette nel corrispettivo tra le proprie vicende biografiche e la propria produzione artistica. Il fluire dell’esistenza lascia, di tanto in tanto, delle asole aperte nelle quali s’infilano i bottoni dell’arte, recando con sé tutto l’apparato filamentoso di significati e significanti che nella vita aveva avuto la propria origine. Il cerchio si riannoda e l’intimità, quanto più indicibile nel linguaggio convenzionale, diviene una paradossale porta d’ingresso per un mondo ben più ampio di quanto lo sarebbe altrimenti.
Dentro A Song For Our Ancestors, questo passaggio dal particolare all’universale è formalizzato nella scelta di esporre alcune immagini in grande formato e altre in dimensioni minute. Otticamente è così favorita la corretta percezione di una narrazione che si snoda tra la dimensione appartata della memoria familiare e quella pubblica, più pubblica ancora, del paesaggio naturale. Il viaggio è scandito con regolarità, talvolta consapevole e talvolta incidentale, discendendo verso la foce con la grazia di una musica ritmata e senza strepiti.
Così suona il canto per Augusto.
Tutta la musica esiste in virtù dei silenzi che la scandiscono.
A Song For Our Ancestors mette in scena un tempo lirico che sovente si ritira pudicamente tra le anse del Tevere, lasciando sulle labbra dello spettatore la domanda che lo conduce alla tappa successiva del viaggio. I tagli di montaggio che scandiscono la narrazione, che spesso non giungono a combaciare perfettamente tra una scena e l’altra, sono intesi ricomporsi nello sguardo dell’osservatore, che diventa complice e partecipe dell’autrice laddove gli è richiesto di riempire i vuoti e vagheggiare sui pieni. Da questo punto di vista essere ascoltatori del canto di Alessandra Book per il nonno Augusto è un esercizio profondamente etico, che domanda un contributo essenziale alla propria sensibilità. Colpisce che questa dimensione etica si riveli così convenientemente senza l’esigenza di fare appello artificiosamente a temi di attualità, ma indagando la propria speciale intimità con il massimo grado di onestà, ritirandosi spontaneamente nella reticenza laddove l’informazione risulterebbe intrusa.
Questa tensione tra il silenzio e il linguaggio, tra l’ascondimento e la rivelazione, trova il proprio equilibrio nell’irriducibile, irresistibile relazione affettiva che ricama insieme tutte le sezioni ritmiche della mostra.
È proprietà speciale di un affetto sincero quello di non poter essere precisato nei limiti angusti della realtà. Il viaggio conoscitivo di Alessandra Book evade serenamente le barriere dell’indagine analitica: è la stessa autrice a confermare, in apertura, che il percorso delle ceneri documentato lungo il fiume Tevere è ipotetico. La memoria è complice intima del sogno; le rive del fiume si compiono nelle scenografie domestiche, discretamente immortalate in alcuni degli scatti. Le inquadrature autografe si mischiano alle immagini d’archivio e i diversi tuffi di cui è disseminata la narrazione paiono voli e contorsioni, slegati dalla posa e astratti dal naturale contesto.
L’esplorazione si compie senza soluzione di continuità nel mondo dell’immaginazione, sbalzando mollemente lo spettatore fuori e dentro di esso come una marea.
Augusto si è abbandonato al mare. La sua identità si è sbriciolata nelle onde, si è moltiplicata negli infiniti dettagli della spuma, nella danza delle correnti mai uguale a se stessa. Oltrepassata la soglia decisiva della foce egli scandisce silenziosamente il suo addio a quel che costituiva l’impalcatura della sua vita precedente e si mescola al divenire. Così va in scena l’estrema restituzione del protagonista, e l’economia del viaggio è compiuta.
Eppure noi possiamo ricominciare tutto da capo. Il viaggio compiuto da Augusto e rievocato da Alessandra ricompone nuovamente l’amata figura del nonno, nei panni di un tuffatore statuario che potrebbe balzare nell’ignoto ancora cento volte. Così la fotografia si fa cosa viva, una tensione che per approssimazione si avvicina all’eternità, nella quale nessun tuffo è l’ultimo e l’arte è un antidoto
alla perdita, capace di inventare quel che manca alla storia.
Kamil Sanders