ANTONIO DEL MASSARO DETTO IL PASTURA. TUTTO DA SCOPRIRE
ANTONIO DEL MASSARO DETTO IL PASTURA. TUTTO DA SCOPRIRE
L’arte di Antonio del Massaro detto il Pastura approda a Palazzo Patrizi Clementi, giovedì 23 marzo p.v., con la presentazione di un volume a lui dedicato: “Antonio del Massaro detto il Pastura. Studi su un peruginesco viterbese e la sua bottega”, a cura della storica dell’arte della soprintendenza, dott.ssa Luisa Caporossi. Molte le voci di esperti che interverranno e daranno i loro contributi. Edito da Olschki e finanziato dalla Fondazione Amici di Italia Fenice, sarà presentato da uno dei massimi conoscitori dell’artista: il dott. Stefano Petrocchi, direttore della Direzione Regionale Musei del Lazio.
Molteplici gli aspetti scandagliati.
Il titolo mette ben in evidenza i connotati del pittore. ‘Peruginesco viterbese’, per le influenze che ebbe su di lui il suo ‘Maestro’, il Perugino (ma anche il Pinturicchio). E, oltre Orvieto dove dipinge nel coro del Duomo, un contesto altrettanto emblematico della sua produzione e del suo operato sarà la Tuscia.
’Viterbese’ di nome e di fatto, come si suol dire, nacque a Viterbo forse nel 1453 secondo Mario Signorelli e visse nel capoluogo di provincia in contrada San Luca, dove morì nel 1516 circa. Sempre secondo il Signorelli, nel 1502 fu addirittura podestà di Canepina.
Federico Zeri su di lui così si pronunciò: “uno dei seguaci più fini e meditati, anche se monocorde”, del Perugino, e ancora Adolfo Venturi parlò di un “imitatore diligente delle forme del maestro che egli arrotondò con un meccanismo sempre uguale e colorò con allegra vivacità”. In realtà Pastura, pur riprendendo in maniera netta i modelli del Perugino e del Pinturicchio, conserva degli elementi suoi peculiari sino a fare lui stesso a sua volta ‘scuola’. Pertanto centrale è il rapporto anche con la ‘sua’ bottega e il confronto con altri artisti come Monaldo Corso, Giovanni Piacere, D’Avanzarano, che diffondevano nella Tuscia un linguaggio umbro-laziale.
La sua creazione si muoveva sempre su un doppio binario: da un lato, la perenne fedeltà al Perugino di cui conosceva molto bene le opere e i cartoni che circolavano nella bottega; dall’altro, il Pinturicchio dal quale deriva anche l’esuberanza nell’uso dell’azzurrite e dell’oro, vista sui ponteggi dell’Appartamento Borgia in Vaticano e riproposta nel coro del duomo di Tarquinia. Questi dipinti furono eseguiti tra il 1508 e il 1509, per il cardinale Antenore Vitelleschi, valutati positivamente da Luca Signorelli e inaugurati da Giulio II. Purtroppo la ricchezza della decorazione della cappella Vitelleschi di Tarquinia non è più del tutto leggibile a causa dell’incendio del 1643, che fece sciogliere l’impasto di cera col quale erano state realizzate le dorature a rilievo e danneggiò gravemente i dipinti. Come già nei paesaggi della cappella Sistina e poi in quelli dell’Appartamento Borgia, anche a Tarquinia e in tutti gli altri dipinti del Pastura risplendevano le fronde degli alberi con lumeggiature d’oro, con le quali l’artista viterbese era solito incorniciare vivaci cieli al tramonto.
Questo libro su Pastura, che vede la luce proprio nell’anno in cui si celebrano i 500 anni dalla morte del Perugino, è anche una prima occasione per ricordare uno studioso come Giorgio Felini, recentemente scomparso, che tanto ha contribuito alla conoscenza del pittore. Felini nel volume ricorda l’insegnamento del suo ‘mentore’, Italo Faldi, che asseriva che è meglio “aggiungere due righe documentate alla storia dell’arte che sostenere con un profluvio di parole un’attribuzione opinabile”, linee-guida che sono quelle seguite nei lavori che hanno portato ai contenuti di questo volume. Fu sempre Felini a ritrovare nell’Archivio di Stato di Viterbo il contratto del 1510 che commissionava al Pastura la realizzazione delle due tavole dei santi Tolomeo e Romano della cattedrale di Nepi, restaurate nel 2017 da Davide Rigaglia e Valentina Romè, con il finanziamento di AIF (Amici di Italia Fenice).
Tra le poche opere documentate del Pastura anche la decorazione della Sala delle eroine del Castello di Bracciano, unica decorazione profana fino ad oggi nota del pittore, molto ridipinta e danneggiata dalla realizzazione successiva di un controsoffitto neobarocco, per la quale viene pagato tra dicembre del 1510 e giugno del 1511; merito di Anna Cavallaro aver ritrovato il documento che reca il nome del pittore e aver illustrato il programma iconografico “con episodi di eroine antiche alternati a medaglioni con ritratti di re, imperatori e personaggi illustri in un campo di grottesche, secondo un programma che esalta le virtù femminili e la famiglia Orsini”. Fra le scene rappresentate: La ninfa Egeria e il re Numa Pompilio e La morte di Virginia, giovane romana che il padre Virginio uccise affinché non cadesse prigioniera del decemviro Appio Claudio nel disonore. Così come l’iscrizione Lucretia descrive Il suicidio di Lucrezia, che rimanda all’eroina romana morta suicida dopo la violenza subita dal figlio di Tarquinio il Superbo, la scritta Tanaquil rimanda alla moglie dell’etrusco Lucumone prima derubato del cappello da un’aquila, che poi glielo restituì. La donna, infatti, lo interpretò come un segno premonitore di favore degli dei e così sarà, poiché diverrà, nel 616 a.C., il quinto re di Roma con il nome di Lucio Tarquinio Prisco.
Il volume edito da Olschki è nato da alcune felici coincidenze: i restauri diretti dalla Soprintendenza su dipinti del pittore negli ultimi anni, la disponibilità di molti studiosi del pittore e del contesto in cui operò a partecipare a questo progetto (E. Parlato, G. Felini, L. Caporossi, A. Cannistrà, A. Cavallaro, S. Angelucci, E. Gnignera, F. Vicenti, F. Ricci, G. Tiziani) e il contributo fondamentale della Fondazione Amici di Italia Fenice.
Ma questo è in realtà il primo dei due volumi dedicati al pittore viterbese. L’altro, Il Pastura. Un’antologia di restauri (edito Gangemi, a cura di Alessandra Acconci e Luisa Caporossi) raccoglie i risultati dei restauri e delle indagini diagnostiche su opere certe o attribuite al pittore, a Roma e nel Lazio.