CARRA’ e MARTINI. Mito, visione e invenzione – Museo del Paesaggio, Verbania
CARRA’ e MARTINI. Mito, visione e invenzione
L’opera grafica
13 Giugno – 3 Ottobre 2021
Museo del Paesaggio, Verbania
Il Museo del Paesaggio riapre la stagione espositiva con la mostra Carrà e Martini. Mito, visione e invenzione. L’opera grafica con opere provenienti dalla collezione del Museo e da una collezione privata milanese, a cura di Elena Pontiggia e di Federica Rabai, direttore artistico e conservatore del Museo.
L’esposizione inaugura presso gli spazi di Palazzo Viani Dugnani a Verbania sabato 12 giugno alle ore 11.30 e resterà aperta fino al 3 Ottobre.
In mostra oltre 90 opere, per lo più di grafica, dei due grandi artisti del Novecento italiano che si sono distinti e affermati proprio grazie all’invenzione di un nuovo linguaggio in pittura e scultura. Completa il percorso dedicato al mito e alla visione una serie di sculture di Arturo Martini, presentate accanto ai bozzetti, ai disegni e alle incisioni.
Carrà. L’opera grafica
In mostra sono esposte circa cinquanta tra acqueforti e litografie a colori, che comprendono tutti i più importanti esiti dell’artista. Si va dagli incantevoli paesaggi dei primi anni venti, tracciati con un disegno essenziale e stupefatto (Case a Belgirate,1922), alla suggestiva Casa dell’amore (1922), fino alle visionarie immagini realizzate nel 1944 per un’edizione di Rimbaud, in cui Carrà, sullo sfondo della guerra mondiale, rappresenta angeli, demoni, creature mitologiche e figure realistiche, segni di morte ma anche di speranza (Angelo, 1944). Fin dagli inizi, inoltre, Carrà avvia grazie all’incisione un sistematico ripensamento della sua pittura, che lo porta a reinterpretare con acqueforti e litografie i suoi principali capolavori, dalla Simultaneità futurista alle Figlie di Loth, dal metafisico Ovale delle apparizioni al Poeta folle. L’incisione diventa così per l’artista un momento di verifica, ma anche uno struggente album dei ricordi.
La Stagione iniziale (1922-1928)
Le prime incisioni di Carrà – tutte acqueforti, con l’unica eccezione della litografia I saltimbanchi, destinata a una cartella edita a Weimar dal Bauhaus – risalgono al 1922-1923. E’ però nel 1924 che l’artista si dedica sistematicamente all’incisione, grazie agli insegnamenti di Giuseppe Guidi, che quell’anno aveva aperto un laboratorio calcografico nella sua stessa casa, in via Vivaio 16 a Milano. Esegue infatti trentatré acqueforti e stampa i rami che aveva inciso, ma non impresso, nel biennio precedente.
Carrà adotta un segno sintetico, duro, capace di esprimere il suo mondo di figure e luoghi sottratti al tempo. E’ soprattutto il paesaggio ad attrarlo, che vuole trasformare in “un poema pieno di spazio e di sogno”. Fin dagli inizi, però, l’incisione serve a Carrà anche per rielaborare opere precedenti, in un’incontentabile ricerca espressiva. Questa fervida stagione iniziale ha un’appendice nel 1927-1928, quando Carrà, che in quel periodo aderisce al gruppo del “Selvaggio” (la rivista toscana animata da Maccari, a cui sono vicini Soffici, Rosai, Morandi e altri artisti) esegue litografie e acqueforti caratterizzate da un linguaggio più pittoricistico.
La Stagione delle Litografie (1944-1964)
Nel 1944, dopo un intervallo di sedici anni dalle ultime incisioni, Carrà torna a dedicarsi alla grafica. A differenza degli anni Venti, quando aveva praticato soprattutto l’acquaforte, ora è la litografia a impegnarlo, sia in bianco e nero che a colori.
Le tavole di Carrà si raggruppano quasi sempre in progetti articolati. Nel 1944 pubblica la cartella Segreti, in cui prende vita un paesaggio trasognato (il lago di Como, visto da Corenno Plinio dove l’artista era sfollato nel 1943) immerso in una quiete irreale.
Sempre in questo periodo si dedica intensamente all’illustrazione. Nello stesso 1944 esegue dodici tavole per Versi e prose di Rimbaud, dove compare un mondo di angeli, demoni e segni di morte (riflesso dei tragici momenti della guerra). Nel 1947 illustra L’Après-midi et le Monologue d’un Faune di Mallarmé, tradotto da Ungaretti.
A partire dal 1949, ormai alla soglia dei settant’anni, ripensa invece sistematicamente alla propria opera. Nella cartella Carrà 1912-1921 (Venezia 1950) e nei due album Carrà n. 1 e n. 2 dei primi anni Sessanta riprende opere del periodo futurista, primitivista e metafisico. Tutto il corteo di muse e maschere inquietanti nate quaranta-cinquant’anni prima gli si ripresentano alla memoria con la levità di un dagherrotipo, o con cromatismi leggeri e impalpabili. Come apparizioni.
Arturo Martini. L’opera pittorica e grafica
Alla fine degli anni trenta Martini prende sistematicamente a dipingere, accettando la sfida di un linguaggio per lui quasi nuovo, di cui deve assimilare pazientemente la tecnica. In pittura non è il maestro celebrato, ma un principiante che parte quasi da zero e conosce imperfezioni, incertezze, fallimenti. Certo, in passato, soprattutto da giovane, aveva eseguito disegni, incisioni e anche qualche quadro, ma quelle prove non bastano a dargli la padronanza del mestiere e nelle sue lettere alla moglie Brigida rivela tutte le sue ansie, insieme alle sue speranze. “Non mollo l’osso, devo spuntarla, deve nascere la mia pittura” le scrive e più tardi: “Mi par d’aver trovato con questa nuova speranza la vita, perché di scultura non ne potevo più, ero nauseato”.
In autunno, da Vago di Lavagno, nel Veronese scrive: Spero […] poter dipingere dal vero i paesaggi che mi stanno attorno. Domani mi proverò ad uscire con una cassetta di colori, vedremo se capirò qualche cosa, però nella peggiore delle ipotesi studierò dal vero, sfogherò un desiderio che da tanto tempo avevo”. Commuove pensare che chi parla così, come un pittore della domenica, non è un dilettante ma un maestro, il vincitore del gran premio alla Quadriennale, uno degli artisti più famosi d’Italia, se non d’Europa. In quella scommessa difficile, in quel corpo a corpo con la tela, che lo colma di gioia nonostante le difficoltà dell’esecuzione e le incertezze degli esiti, Martini si gioca tutto, anche il benessere faticosamente conquistato dopo anni di fame. “Forse dipingerò sempre anche se questo mi porterà come un tempo alla miseria”.
Il 17 febbraio 1940 alla Galleria Barbaroux di Milano, Martini inaugura la sua prima mostra di pittura. Ventitré quadri, dipinti tutti nel 1939 tra Vago, Burano e Milano. “E’ certo l’avvenimento maggiore della cronaca artistica dell’annata […] Martini ha raggiunto […] i gradini più alti della pittura contemporanea” aggiungeva euforico Guido Piovene, allora critico d’arte del Corriere della Sera. “Il risultato è stato inaspettato, la critica entusiasta […] le vendite al modo che si comperasse pane in periodo di carestia” riconosceva anche Martini. La scommessa della pittura, insomma, era stata vinta. Preceduta in gennaio da un articolo trionfale, sempre di Piovene, sul diffuso supplemento del Corriere (“Martini è un grande scultore, ma da questo momento v’è un grande pittore in più”); governata da una concezione idealistica dell’arte, secondo cui i generi non contano e “i buoni scultori sanno anche disegnare”, la critica non aveva lesinato le lodi per quelle tele che univano il segno approssimativo dell’espressionismo lirico a una solidità appunto da scultore. Anche un osservatore esigente come Savinio giudicava i quadri di Martini “rapidi, poetici, geniali”.
Le circa quaranta opere in mostra sono comprese tra il 1921 e il 1945 coprendo tutta la carriera dell’artista, a iniziare dal lavoro a matita su carta Il circo del 1921 circa, importate disegno del momento di “Valori plastici” quando Martini è molto prossimo a Carrà e in genere a una personale rivisitazione della congiuntura metafisica. Ricorda la grafica di Carrà per i corpi bloccati dentro un segno sigillante, e, nel contempo, sembra di cogliervi un’eco di Parade di Picasso, il grandioso sipario eseguito a Roma nella primavera del 1917 quando anche Martini frequentava sporadicamente la capitale. Segue Carnevale del 1924, incisione pubblicata sulla rivista “Galleria” accompagnata da una breve poesiola non-sense sul “Carne-vale”. Si differenzia per levità di tratto dalle coeve xilografie pubblicate sulla stessa rivista, caratterizzate invece da tratti pesanti e scultorei.
Interessante è il Suonatore di Liuto del 1929, prima opera donata da Martini a Egle Rosmini al momento della loro conoscenza, e comunque l’unica con la dedica. Raffigura un giovane uomo in posizione stante, vestito in abiti rinascimentali: forti le assonanze con un affresco, oggi in parte perduto, in una facciata di un palazzo a Treviso, dove ricorre il particolare del vestito diverso nelle due gambe. Importante poi il ciclo di incisioni eseguite a Blevio nell’estate del 1935 su soggetti già trattati anche in scultura – come L’Attesa e Ratto delle Sabine – o già presenti in altre incisioni precedenti – come L’uragano; altre però sono nuove come Il fabbro inserito nell’antro oscuro come un Vulcano moderno o Il Samaritano che sembra partecipare anche fisicamente al dolore del corpo vulnerato del povero. Il fatto che non sussistono riscontri stilistici tra le opere plastiche modellate a Blevio nello stesso frangente e queste opere grafiche (discrasia evidente nel caso del bassorilievo del Ratto delle Sabine in mostra) attesta che Martini accedeva a mezzi espressivi diversi proprio per staccare un registro espressivo dall’altro. In queste incisioni la trama delle linee è fittissima fino a oscurare la superficie, quasi a emulazione della maniera nera.
Nel 1942 realizza 11 disegni preparatori – tutti in mostra – del Viaggio d’Europa per l’illustrazione dell’omonimo racconto di Massimo Bontempelli. Tra questi disegni preparatori e la versione definitiva delle illustrazioni c’è lo stesso rapporto che sussiste tra i bozzetti delle opere monumentali e l’esito finale. Rigidi e puramente orientativi questi “bozzetti” sono serviti a Martini per un primo approccio al soggetto del racconto bontempelliano e, pur testimoniando la presenza di alcuni topoi martiniani – il dormiente, l’incontro di due figure, gli squarci spaziali – e di un generale clima “metafisico”, è evidente il loro carattere provvisorio e di studio.
Del 1944-45 sono il gruppo di incisioni predisposte da Martini per l’illustrazione della traduzione italiana dell’Odissea a cura di Leone Traverso, poi non pubblicata. Eseguite a Venezia, rivelano un lato straordinario della versatile fantasia martiniana, anche qui orientata a sperimentare materiali “poveri” e linguaggi poveri, al limite tra immagine e pura suggestione timbrica. Pubblicate postume soltanto nel 1960 sono tra le prove più convincenti della grafica martiniana.
Accanto a queste prove dell’artista sono esposte dieci sculture come La famiglia degli acrobati, Can can, Adamo ed Eva, Ulisse e il cane, Testa di ragazza, Busto di ragazza e tre tele: Sansone e Dalila, La siesta e Paesaggio verde per rafforzare il tema della differenza tra disegno e realizzazione finale delle opere, pezzi unici di grande valore storico e artistico.
INFORMAZIONI
Mostra: “Carrà e Martini. Mito, visione e invenzione. L’opera grafica”
Sede espositiva: Museo del Paesaggio Palazzo Viani Dugnani, Via Ruga 44 – Verbania Pallanza
Periodo di apertura: 13 giugno – 3 ottobre 2021
Inaugurazione: sabato 12 giugno ore 11.30
Orari: da martedì a venerdì dalle 10.00 alle 18.00, sabato e domenica dalle 10.00 alle 19.00. Lunedi chiuso.
Ingresso Intero 5€, Ridotto 3€ (il biglietto dà diritto alla visita della mostra, della pinacoteca e della gipsoteca Troubetzkoy)
Per informazioni
Museo del Paesaggio – Tel +39 0323 557116 segreteria@museodelpaesaggio.it
Ufficio Stampa Nazionale:
Lucia Crespi, tel. 02 89415532 – 02 89401645, lucia@luciacrespi.it
Catalogo:
Edito dal Museo del Paesaggio
CARLO CARRA’ – BIOGRAFIA
Carlo Carrà nasce a Quargnento (Alessandria) nel 1881. Dopo gli studi all’Accademia di Brera, dove è allievo di Cesare Tallone, è tra i firmatari, nel 1910, del Manifesto Futurista, con Boccioni, Balla, Severini, Russolo. Nel 1911 e nel 1912 si reca a Parigi, dove ha contatti con i maggiori protagonisti delle avanguardie, stringendo amicizia in particolare con Apollinaire e conoscendo Picasso, Braque, Matisse, Derain.
A partire dal 1915-16 sviluppa una ricerca primitivista che ripensa al Doganiere Rousseau, ma anche a Giotto e a Paolo Uccello.
Richiamato al fronte nel 1916, e ricoverato nel 1917 nell’Ospedale militare di Ferrara, conosce Giorgio De Chirico, con il quale dà vita alla pittura metafisica, cioè a un’arte che vuole indagare il significato ultimo della realtà, andando oltre (in greco “meta”) la mera apparenza.
Vicino nel dopoguerra alla rivista romana “Valori Plastici” e poi, dalla metà degli anni venti, al Novecento Italiano, sviluppa una pittura che lui stesso definisce “realismo mitico”. I suoi paesaggi, infatti, non sono più una riproduzione veristica della natura, ma vogliono raggiungere la forma assoluta delle cose: vogliono essere, come scrive lui stesso “un poema pieno di spazio e di sogno”.
Anche negli anni trenta, in cui è tra i protagonisti della rinascita della pittura murale, e nel secondo dopoguerra l’artista prosegue la sua ricerca.
Carlo Carrà muore a Milano nel 1966.
ARTURO MARTINI – BIOGRAFIA
Nato da una famiglia poverissima e litigiosa a Treviso nel 1889, Arturo Martini inizia a lavorare a dodici anni e solo a diciotto, grazie a una borsa di studio, può studiare scultura a Venezia. Con i primi faticati guadagni soggiorna a Monaco (1909) e a Parigi (1912), ma nello stesso 1912 rientra in Italia per la morte del padre. Protagonista con Gino Rossi della stagione rivoluzionaria di Ca’ Pesaro, nel 1912 si avvicina al futurismo e, dopo la guerra, al “Novecento”. Nel 1920 si sposa, ma non ha i soldi per mantenere la moglie Brigida, di Vado Ligure, e deve separarsene per cercare lavoro a Milano. Tornato a Vado dipende, tra mille umiliazioni, dall’aiuto del suocero. Per sopravvivere fa anche il “negro” di uno scultore americano. Intanto aderisce alla rivista “Valori Plastici” ed è tra i maggiori interpreti degli ideali classicheggianti dell’epoca. Nel 1931 il miracolo: alla Quadriennale di Roma vince il primo Premio di centomila lire, leggendario in un’Italia che sognava di avere “mille lire al mese”. Sempre in questo periodo in un grande forno-studio porta la terracotta a proporzioni monumentali e a esiti di straordinaria poeticità. Si lega quindi alla giovane Egle Rosmini, nata a Selasca (Verbania), pur non interrompendo il rapporto con Brigida e i figli. Questo periodo felice, che chiama “la stagione del canto”, finisce però alla fine del decennio. I suoi ultimi anni, in cui “scopre” il marmo, sono spesso segnati dalla malattia e, nel 1945, da un umiliante processo di epurazione, oltre che da una angosciosa crisi d’identità che lo porta a considerare la scultura una “lingua morta”. Muore nel 1947, a nemmeno cinquantotto anni.
IL MUSEO DEL PAESAGGIO A PALAZZO VIANI DUGNANI
Nel marzo 2017 ha riaperto il primo piano di Palazzo Viani Dugnani di Verbania (Via Ruga 44), storica sede del Museo del Paesaggio, chiuso per lavori di manutenzione e adeguamento impiantistico dal 2013. Nel Giugno 2016 è stato riaperto il piano terra con l’esposizione di successo di 150 opere dello scultore Paolo Troubetzkoy, nel centocinquantesimo anniversario della sua nascita. La collezione di gessi di Troubetzkoy, 340 in tutto, costituisce la punta di diamante del museo verbanese; la sua importanza è riconosciuta in tutto il Mondo in quanto unica possibilità di studiare e indagare con precisione lo stile e l’opera dell’artista, tanto che l’esposizione è diventata permanente per consentire al pubblico e agli studiosi di conoscere e approfondire la figura di questo affascinante artista dal respiro internazionale, di origine russa, nato proprio a Verbania.
Con la riapertura del primo piano, il Museo del Paesaggio ha riacquistato la sua completezza presentando al pubblico di nuovo la propria pinacoteca, costituita da pezzi unici e di importanza non solo per il territorio ma anche a livello nazionale grazie alla presenza di eccellenti opere di paesaggisti ottocenteschi.
La collezione è costituita dalle opere di alcuni rappresentanti dei più importanti movimenti artistici italiani come la scapigliatura di Daniele Ranzoni; il romanticismo del pittore di montagna Federico Ashton; il naturalismo lombardo di Achille Tominetti, Eugenio Gignous, Guido Boggiani; il verismo di Arnaldo Ferraguti; il simbolismo di Sophie Browne della Valle di Casanova; quindi il divisionismo di Vittore Grubicy De Dragon, Carlo Fornara, Cesare Maggi e Guido Cinotti. Di grande rilevanza anche il più contenuto nucleo Novecentesco costituito da opere di Mario Tozzi e del grande scultore Arturo Martini. Mantenendo la linea seguita per il piano terra, ovvero il rispetto per la storicità del Palazzo e delle sue caratteristiche, il primo piano si presenta al pubblico con ambienti completamente rinnovati sotto il profilo dell’illuminazione e rinfrescati con colori in linea con le decorazioni dei preziosi cassettoni lignei dei soffitti storici. Un’ala è dedicata alle mostre temporanee e tutte le sale sono state dotate di speciali binari per l’allestimento dei quadri, che da un lato salvaguardano le pareti storiche e dall’altro permettono la più semplice rotazione delle opere. Durante i lavori sono stati recuperati antichi camini e porte storiche, precedentemente occultate da pareti di cartongesso, rimosse in questa fase di restauro con la volontà di ridare al Palazzo il suo antico aspetto di residenza nobiliare, con i suoi pavimenti di parquet e le sue decorazioni.
Nel Novembre 2019 sono iniziati nuovi lavori di ristrutturazione e recupero dell’ala ovest del Palazzo che un tempo ospitava l’appartamento del custode, grazie a fondi Fesr, che nella Primavera 2021 renderanno disponibili nuove sale espositive, nuovi servizi per il pubblico e un ascensore che collegherà le due ali del palazzo consentendo al pubblico di effettuare la visita delle collezioni attraverso un percorso circolare e quindi molto più agevole.
STORIA DEL PALAZZO VIANI DUGNANI – VERBANIA
La storia documentabile del palazzo inizia nella seconda metà del Seicento, ed è legata alla nobile famiglia pallanzese dei Viani: nel 1676 Giovanni Antonio Viani vi abita con undici domestici. L’attuale denominazione risale, però, a più secoli dopo; nel 1785, infatti, la benefattrice Teresa Viani, che ne era proprietaria, si unì in matrimonio a Giulio Dugnani, discendente da un’antica famiglia milanese. Nel corso dell’Ottocento vi abitò, in affitto, il colonnello Paolo Solaroli, eccentrica figura di avventuriere che pare aver ispirato a Salgari la figura di Yanez. Poi il Palazzo fu acquistato dall’imprenditore edile pallanzese Tommaso Croppi e più tardi passò a Giuseppe Castelli (a cui è intitolato l’ospedale di Verbania). Ereditato dalla
Congregazione della Carità nel 1875, poi acquistato dal Comune di Pallanza nel 1879. Dal 1914 è sede del Museo del Paesaggio.
DESCRIZIONE DI PALAZZO VIANI DUGNANI
Sobrio palazzo di epoca barocca, caratterizzato da un monumentale portale in granito rosa e da facciate lineari e semplici, decorate da fasce marcapiano e cornici in intonaco liscio rilevato, tipiche dell’epoca. Un tempo il lato di Via Marconi (non a caso percorso da un’elegante balaustra) si affacciava sul giardino, la cui area è oggi occupata dall’ottocentesca Piazza Pedroni. Il cortile interno, di grande bellezza ed effetto pur nella sua semplicità, non a caso è stato utilizzato, negli ultimi anni, per concerti, presentazioni e spettacoli teatrali. Le sale interne – i cui soffitti presentano stucchi, cassettoni e dipinti murali di varie epoche – ospitano le collezioni principali del Museo del Paesaggio: la sezione scultura con la gipsoteca Troubetzkoy e il nucleo di opere di Arturo Martini; la sezione pittura con una sala dedicata ad alcuni affreschi del Quattrocento e il percorso principale che si snoda tra Otto e Novecento (da Daniele Ranzoni a Mario Tozzi