Giovanni March: verso l’oggettivazione dei toni – Francesca Cagianelli – Collesalvetti
Debitore ai suoi esordi, oltre che di “un fosco puccinismo”, anche e soprattutto della supervisione impartitagli da Ludovico Tommasi nel corso delle reiterate ricognizioni pleinairistiche nella campagna di Campolecciano, Giovanni March (Tunisi, 1894 – Livorno 1974) raggiungerà precocissime mete espositive, quali la personale a Bottega d’Arte Livorno ad appena sedici anni, quindi, nel 1921 il prestigioso e ambito approdo alla celebre Saletta Gonnelli di Firenze, e infine, nel 1922, l’invito alla Primaverile fiorentina.
Fu Guido Vivarelli a celebrare in quest’occasione la straordinaria precocità artistica di March e la sua fervida ammirazione per la pittura pucciniana, ma al contempo, la raggiunta autonomia espressiva, nel segno di una rudezza primitiva: “La sua pittura rude e schietta, tutta semplicità e tutta forza espressiva, schiva di ogni sorta di “effetti” e di convenzionalismi, appare a chi la conosce da vicino come lo specchio fedele della sua pura, dritta e sdegnosa anima di selvaggio”.
Data al 1923 la personale alla Galleria Vinciana di Milano, il cui successo è confermato l’anno successivo dalla seconda personale a Bottega d’arte di Livorno, dove l’artista ebbe l’onore di una presentazione in catalogo firmata da Carlo Carrà, e quindi, nel 1926, da una nuova personale sempre a Bottega d’arte, presentata stavolta da Enrico Somaré, che nella sua rilettura degli esiti stilistici di March sottolineò il suo legame con la tradizione macchiaiola.
Presente ripetutamente sul palcoscenico milanese in occasione della mostra promossa dal Gruppo Labronico nel 1924 presso la Galleria Pesaro, e quindi in occasione della personale del 1926 alla Galleria L’Esame, l’artista riscuote ancora una volta il consenso critico di Carlò Carrà che ne diventerà, come lo stesso March ricorderà in un’intervista degli anni Settanta, una sorta di padrino.
Tra i massimi traguardi espositivi si colloca la personale del 1930 presso la celebre Galerie Bernheim-Jeune di Parigi, dove l’artista soggiorna e matura convintamente un’evoluzione postimpressionista, i cui esiti saranno proposti all’attenzione del pubblico livornese in occasione dell’ennesima personale a Bottega d’Arte, introdotta stavolta da Ettore Petrolini.
E se nel 1943 Gastone Razzaguta, nelle sue Virtù degli Artisti Labronici, ne riassumerà il profilo stilistico prospettando “il fatale caso March”, indicandolo cioè quale “l’iniziatore d’uno speciale Puccinismo in tono minore, largo, sfocato e fosco, al quale si attaccò tutta una sequenza di giovani pittori”, suggestionato poi dall’esempio degli impressionisti francesi e pervenuto quindi a “una chiarità toscana”, si preferisce in questa occasione riassumere il curriculum dell’artista tramite l’autorevolissima firma di un toscano doc quale Raffaello Franchi (Firenze 1899 – 1949).
A margine infatti della personale del livornese tenutasi nel 1940 al Lyceum di Firenze, Raffaello Franchi ne siglava un succinto cammeo, schizzando icasticamente il suo iter espressivo tra “le tenerezze paesistiche del miglior Morandi”, “talune delle violenze coloristiche di Mario Puccini”, quindi “la consanguineità col gusto compositivo di un Ghiglia, sposato alla polpa pittorica di un Tosi”, per poi concludere a vantaggio di una “profonda ostinata coerenza istintiva” e con l’approdo assolutamente organico a “un mondo nuovo, unitario e tutto suo”.