Guglielmo Bauducco – ” Luce e controluce” – Vigone
Guglielmo Bauducco è nato e risiede a La Rotta, frazione sita nella pianura a sud della città di Moncalieri, lungo il percorso del Po.
Dopo il diploma al liceo classico, ha conseguito la laurea in ingegneria nucleare.
Ha lavorato in aziende del settore nucleare, della termodinamica e del trattamento acqua.
Parallelamente alla sua attività di Ingegnere, ha continuato ad amare le discipline umanistiche, interessandosi alla pittura della grande tradizione medioevale e rinascimentale e restando particolarmente colpito dalla narrazione dei soggetti inseriti in un contesto paesaggistico ed architettonico armonioso nelle forme e nei colori.
Dal punto di vista dell’ispirazione fotografica, Bauducco è rimasto successivamente molto influenzato dall’arte dell’Impressionismo e da Van Gogh: i personaggi vivono e vengono visti in un campo di luce e di colori delicati od anche più forti nel loro ambiente:in strada, nei campi, nei cortili, nelle stanze o sulle piazze.
Bauducco ha presto cercato di trasferire queste sue emozioni nelle sue diapositive, scattate con le sue Pentax; ha mai abbandonato questo marchio, caratterizzato da ottiche che gli hanno sempre assicurato colori caldi e tonalità” pastello” a lui congegnali.
Il succedersi delle stagioni nei campi e sull’argine del fiume, il lavoro dei contadini, i volti intensi degli anziani, ritratti quasi sempre in primo piano, le tradizioni delle feste religiose di campagna, il colore forte ed emozionante dei papaveri, la delicatezza dei fiori di pesco, i campi di fiordalisi sono certamente i soggetti principali di Bauducco e formano la parte “ forte” della mostra.
E ancora il fascino delle piazze davanti alle Chiese di Paese, i portici medioevali, con la loro luce diffusa e con le scene di vita e di lavoro quotidiano, le vie puntellate di lampioni che si perdono nella nebbia, le vecchie cascine abbandonate, gli sguardi sereni e dignitosi delle Persone colti proprio su queste piazze, magari la domenica dopo la messa.
Negli ultimi tempi Bauducco si è avvicinato al Bianconero ispirato, anzi colpito dalla conoscenza del grande Fotografo e Poeta Mario Giacomelli, solitario Artista marchigiano che ha descritto la sofferenza degli uomini e della terra con forza, emozione e pietà.
A questo nuovo percorso, che Bauducco ha dichiarato di voler continuare ad approfondire, appartiene la sezione più concettuale e simbolica“ Abbandono del bosco vecchio sul Po” presente nella mostra ed ispirata dagli ultimi quattro versi della poesia “ cuore dell’inverno” di Tomas Transtromer.
C’è un mondo senza suoni
Una fessura
Attraverso la quale i morti
Passano clandestinamente il confine
Il bosco abbandonato lungo il vecchio corso del Po
Le foto che ho presentato nella relativa sezione della mostra fanno parte di un lavoro fotografico che sto svolgendo nel letto ormai paludoso e quasi impercorribile per la quantità di alberi caduti e dove un tempo scorreva invece rigoglioso il grande fiume.
Poi, in una piena avvenuta nella seconda parte degli anni 50, il Po ha cambiato percorso abbandonando al suo destino quella meravigliosa ansa.
Essa è rimasta comunque inizialmente un luogo affascinante, in cui zampillavano sorgenti che creavano piccoli rivoli in cui, d’inverno, si specchiava l’azzurro del cielo.
Si formavano anche piccoli stagni, in cui guizzavano pesci e gracidavano le rane.
Attorno, appena fuori dall’ultimo argine, piccoli pioppeti curati, si intercalavano con boschetti di acacie: qua e là crescevano rigogliose le querce.
In uno slargo, appena all’interno dell’argine maestro c’era un prato d’erbe selvatiche che a marzo si trasformava in un tappeto di violette.
I contadini c’erano ancora: lasciavano al pascolo le mucche che mantenevano pulito il prato; si tagliavano le gaggie, diradandole e lasciando quindi entrare la luce del sole.
Nella parte interna dell’ansa vi erano ancora boschi e prati: nell’acqua delle sorgenti non si riversavano ancora le acque di pioggia che portavano diserbanti, pesticidi, ecc.
Era il mio Boschetto.
Poi tutto finì: i Contadini se ne andarono, l’agricoltura divenne intensiva, interrompendo il ciclo della terra, trasformandolo nel vero e proprio sfruttamento della terra stessa; le stalle furono chiuse, spente le stufe a legna nelle calde e vive cucine delle cascine.
Nessuno più si occupò del bosco anzi, parte del vecchio letto venne trasformato in terreno a cultura intensiva.I diserbanti, i pesticidi ecc fecero allora morire pesci e rane; tutto diventò senza vita.
I figli dei vecchi contadini se n’erano andati e non tagliarono più i pioppi o gli alberi parassiti: il verde prato si coprì di erbacce, di sterpaglie
L’edera si impossessò di tutto e si arrampicò lungo i pioppi , le querce , le acacie.
Sotto quel tappeto inesorabile l’erbetta morì, le viole non sbocciarono più: la poesia ebbe fine.
Gli sterpi crebbero rigogliosi ed i pioppi, le querce, gli aceri selvatici e tutti gli alberi si innalzarono sempre di più per cercare il sole creando, come rappresentato in alcune foto, figure di giganti misteriosi.
Ma il vento ed i temporali vinsero e continuano a vincere, insieme alla vecchiaia di questi tronchi non più recisi: alberi interi caddero e cadono, rami si spezzarono e continuano a spezzarsi, ricadendo uno sull’altro.
L’estate nasconde tutto ma in inverno tutto si manifesta con queste geometrie confuse, inquietanti ed affascinanti.
Con il mio” bianconero” ho cercato di trasformare questa desolazione in visioni che ricordassero un aspetto primordiale della natura, cercando insieme geometrie di intrecci anche metafisici di rami con i quali descrivere la tristezza della mia anima: forse l’angoscia di vivere in questo mondo di sofferenza e d’indifferente violenza; Forse l’età che avanza senza lasciar speranza
C’è un mondo senza suoni
Una fessura
Attraverso la quale i morti
Passano clandestinamente il confine
Da “ Cuore dell’inverno” – La lugubre gondola– Tomas Transtromer Premio Nobel
2011.
Le vecchie cascine abbandonate.
L’ultima parte del 900 ha visto la conclusione di millenni di storia e di cultura nel lavoro della terra.
Il lavoro diretto con le mani, il rispetto del ciclo della terra, i rapporti umani svolti secondo il ritmo delle stagioni e della terra.
Qualche casa, alcuni volti di contadini rappresentano per me la testimonianza di questa fine terribile.
Il contadino non ama più la Terra,ma la usa come strumento di lavoro e guadagno: distese prima aride, poi distese di granoturco, concimazioni artificiali che creano una terra artificiale.
E’ sufficiente percorrere le nostre strade per vedere distese aride, bianche, desertiche: dove sono i prati, le rogge, i filari di gelsi, i boschetti? Nulla, solo aridità che stringe il cuore.
Diceva il grande fotografo e poeta Mario Giacomelli:
“Attraverso le foto di terra, cerco di uccidere la natura, cerco di toglierle quella vita che le è stata data ed è stata distrutta dal passaggio dell’uomo.
Per ridarle una vita nuova, per ricrearla secondo le sue antiche leggi: io aggiungo “ secondo il mio cuore”
La natura è lo specchio entro cui mi rifletto., perché salvando questa terra dalla tristezza della devastazione, voglio salvare anche me dalla tristezza che ho dentro.”
La cascina racchiudeva un’umanità completa, genitori, figli, nonni che vivevano, quasi in tutto del loro lavoro, che scandivano le giornate e le stagioni, amandole e rispettandole senza trasporti poetici, ma con accettazione e fede.
Il rispetto dei figli per i padri, il rispetto dei vecchi casa, il rosario recitato d’inverno nella stalla, di sera, la messa domenicale con il vestito buono, le partite di bocce sull’aia che scandivano le domeniche pomeriggio, il fieno che cadeva dal tridente sul volto sudato, l’attesa per la trebbiatura sull’aia, la liberazione del pascolo delle mucche, il sole a picco sull’aia d’estate,le galline che razzolavano libere nel cortile.
D’autunno la nebbia mattutina che riempiva i polmoni, i campi che diventavano bruni, i cumuli di terra come piramidi misteriose sui prati.
D’inverno la neve che cadeva e che si vedeva cadere dalle finestre della cucina riscaldata dalla stufa, le rape, i cavoli, il pollo in umido la domenica, la messa mattutina nel gelo dell’inverno.
L’estate era lavoro, faticoso, lento e costante, toccando direttamente o con semplici attrezzi la terra, l’erba, le messi; l’inverno era riposo, dormite sulla paglia nella protezione della stalla, lavorazione dei vimini nella stalla, con “ cavagne e ceste che nascevano una dopo l’altra, partite a carte serali nella stalla, con la compagnia del ruminare delle mucche ….
Era forse un mondo chiuso, forse neanche tanto, ma con valori di rispetto e dovere che si sono mantenuti nelle tante persone che hanno lasciato la terra con l’esplodere della società industriale: forse il tarlo del consumismo un po’ li ha risparmiati.
L’agricoltura è diventata industria, la necessità di braccia di lavoro si è azzerata, i giovani sono andati, le vecchie cascine sono diventate improvvisamente capanne, le vecchie stalle inutili : tutto è stato abbandonato e sta cadendo, come un mondo che non c’è più: ma che tutti ora vorrebbero riavere, tutti vorremmo.
Io con le mie fotografie cercherò, fino a quando potrò, questi ricordi, li renderò belli ed irraggiungibili per i posteri, prima che tutto crolli o venga trasformato in freddi, falsi ed ipocriti, finti complessi residenziali.
Guglielmo Bauducco
L’aurora
L’aurora, la nascita del giorno, è un fluire breve e sfuggente di un’infinità di cambiamenti di luce e di sfumature di colori. E’ il passaggio dalla notte al giorno, è l’attesa ansiosa del sorgere del sole, è il termine dei sogni o delle paure della notte e l’avvicinarsi alla vita rassicurante del giorno.
L’aurora è difficile da vivere, abituati come siamo ad aprire le persiane a mattina già fatta e amare il sole che rischiara come un raggio di vita le nostre buie stanze ed il nostro cuore riposato ma sovente angosciato e ansioso di luce. È l’apparire di una nuova speranza di vita per chi ha trascorso una notte insonne con un’anima angosciata o carica di sofferenza.
Ho imparato ad amare l’aurora da bambino, quando con la mamma andavo a messa nelle albe invernali, attraverso la strada che solcava i campi. La strada mi portava verso oriente e lo scenario di questo fluire di luce e colori mi si apriva davanti agli occhi. In certi giorni, dietro il campanile, il disco del sole splendeva mentre la luce dorata che illuminava il cielo entrava in me. La chiesa era gelida, animata da veli neri raccolti nei primi banchi; la parole sacre della messa risuonavano misteriose. Dopo la messa, il giorno era già vivo: i contadini entravano ed uscivano dalle stalle, qualcuno partiva già per il lavoro nei campi, conducendo per mano il cavallo da tiro per iniziare una nuova giornata di fatiche. Dalle stalle si udiva il consueto suono dello stridere del tridente sotto il letto di paglia, si sentivano i comandi che i contadini davano alle mucche… “dai, bugia Rosa!…”. Giovanni, papà del mio amico Domenico, il primo della classe, versava nel bidone il latte appena munto. Tutto mi rassicurava nel cuore.
G.B.
Inverno, i colori della natura
L’inverno è la stagione che ho sempre amato con la mia malinconica e letterariamente “oziosa” anima.
Un tempo il suo arrivo era molto preciso… ricordo quando nella mia campagna si “stallavano” le mucche al termine della stagione del pascolo, sempre tra metà novembre e l’Immacolata. Il passaggio di stagione tra l’autunno e l’inverno era caratterizzato, con le giornate serene, dalle nebbie notturne e mattutine sempre più prolungate col passar dei giorni, oppure da piogge insistenti che lasciavano un forte profumo di terra e di foglie cadute. Si andava a rastrellare le foglie nei pioppeti per utilizzarle come giaciglio povero per le mucche e i vitelli; noi ragazzi con la nebbia andavamo a “rubare” le noci sotto gli alberi che crescevano imponenti dietro le cascine isolate e a raccogliere le mele rugginose dolci e profumate che cadevano ai bordi dei prati, lungo i fossi: quale sensazione di libertà! Respiravamo l’aria fresca, frizzante e densa dei profumi della nebbia, delle mele, dell’erba umida, del fogliame che marciva ed anche di quello acre del letame fumante, ben lontano dall’attuale puzza causata da un’alimentazione forzata.
I colori erano tenui, lievi: solo i campi di grano nella luce bassa e tagliente del mattino o della sera luccicavano di un verde più vivido; in lontananza si intravvedevano le cascine, annunciate da filari di gelsi con quei tronchi larghi e bassi e con quella coppa di rami ormai neri e spogli, che lasciavano intravedere l’azzurro del cielo o le nuvole di pioggia; sovente si vedevano le sagome delle carrette lasciate vicino ai mucchi di letame.
G.B.
La vita dei contadini in inverno
Nei cortili, le gabbie a rete lunghe ed alte, piene di pannocchie sfogliate e messe a seccare, spiccavano e coloravano l’aria nei giorni di nebbia o di pioggia. Faceva buio presto e dopo cena sentivo bussare alla porta: entravano figure misteriose di contadini avvolti in mantelle nere e con il capo coperto da cappelli a larga falda. Gli amici, come s’intendevano un tempo, venivano da mio papà, ottimo intrattenitore e, nel tepore della vecchia cucina, facevano interminabili partite a carte. Il fumo delle vecchie “Alfa”, o delle “Nazionali semplici”, diventava sempre più fitto ma mai fastidioso perché bruciato dal fuoco della stufa, mentre gli uomini, tra un silenzio e l’altro, parlavano non solo della semina, ma anche di politica e del governo che allora durava poco.
Sovente a dicembre o a gennaio arrivava la neve che copriva i campi; era l’inizio del riposo della campagna e dei contadini. Le chiacchierate nelle stalle fiorivano allora anche di giorno, mentre si intrecciavano con i vimini rossi dei salici le ceste e le “cavagne” che sarebbero poi servite nella stagione dei raccolti.
Vorrei che i bambini d’oggi potessero volare sopra la pianura per vedere, respirare e vivere, come allora, quelle distese bianche e silenziose percorse da lente sagome nere dei contadini, con il chiaro profilo delle mucche o dei buoi che conducevano il carro.
Con la neve, i già tenui colori dell’autunno scomparivano e la campagna diventava bianca verso l’infinito; un bianco puntellato di visioni geometriche: di filari neri e sagome delle cascine che volevo nell’anima piene di calore, di vita, di profonda e semplice vita.
G.B.
Brevi lampi di poesia sull’alba
Chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati?
(tratto dal Cantico dei Cantici)
L’alba ha una sua misteriosa grandezza che si compone d’un residuo di sogno e d’un principio di pensiero.
Victor Hugo
Nel suo docile manto e nell’aureola,
Dal seno, fuggitiva,
Deridendo, e pare inviti,
Un fiore di pallida brace
Si toglie e getta, la nubile notte.
È l’ora che disgiunge il primo chiaro
Dall’ultimo tremore.
Del cielo all’orlo, il gorgo livida apre.
Con dita smeraldine
Ambigui moti tessono
Un lino. E d’oro le ombre, tacitando alacri
Inconsapevoli sospiri,
I solchi mutano in labili rivi.
Giuseppe Ungaretti, Nascita del tempo
Sostando presso dei boschi in una sera di neve – Robert Frost
Credo di sapere di chi siano questi boschi;
Ma la sua casa è al villaggio.
Egli non mi vedrà fermo qui A guardare i suoi boschi riempirsi di neve.
Deve sembrare strano al mio cavallo
Sostare qui dove non c’è una casa,
Tra i boschi ed il lago ghiacciato
La sera più scura dell’anno.
Scuote i campanellini dei finimenti
Per chiedere se non c’è sbaglio.
Non c’è altro suono che il fruscio
Dolce del vento e dei soffici fiocchi.
I boschi sono belli, scuri e profondi;
Ma io ho tante promesse da mantenere,
E tante miglia da fare prima di poter dormire
E tante miglia da fare prima di poter dormire.
Inverno… – Attilio Bertolucci
Giardini lontani fra nebbie
Nella pianura che sfuma
In mezzo alle luci dell’alba…
Cacciatori che attraversano un ruscello Mentre uno stormo d’uccelli s’alza a volo
Laggiù quella casa
Che ospitale appare
Coperta di bianco
In un silenzio di fiaba
E attraverso i vetri
Si vede la fiamma
Nel caminetto vacillare.
I treni arrivano, E’ domenica, è Natale?
Più non scende lieve
Sulla terra la neve.
Inverno – Fabrizio De André
Sale la nebbia sui prati bianchi
Come un cipresso nei camposanti
Un campanile che non sembra vero
Segna il confine fra la terra e il cielo
Ma tu che vai, ma tu rimani Vedrai la neve se ne andrà domani
Rifioriranno le gioie passate
Col vento caldo di un’altra estate
Anche la luce sembra morire
Nell’ombra incerta di un divenire
Dove anche l’alba diventa sera
E i volti sembrano teschi di cera
Ma tu che vai, ma tu rimani
Anche la neve morirà domani
L’amore ancora ci passerà vicino
Nella stagione del biancospino
La terra stanca sotto la neve
Dorme il silenzio di un sonno greve
L’inverno raccoglie la sua fatica
Di mille secoli, da un’alba antica
Ma tu che stai, perché rimani?
Un altro inverno tornerà domani
Cadrà altra neve a consolare i campi
Cadrà altra neve sui camposanti.