Ignazio Fresu – IL SABATO DEL VILLAGGIO – TerminaleCinema – Casa del Cinema di Prato
Giovedì 16 settembre alle ore 18:30, il TerminaleCinema – Casa del Cinema di Prato , rinnovato riaprirà con gli spazi rinnovati e la installazione di Ignazio Fresu
IL SABATO DEL VILLAGGIO
Presentazione di Attilio Maltinti :
“Di fronte a questa opera di Ignazio Fresu si hanno sentimenti contrastanti.
La composizione ha, nel suo muoversi, la suggestione di una inedita, consunta fontana antica posta a capo d’angolo di due strade; scivola fra rivoli e cascatelle di oggetti posti in sovrapposizioni asimmetriche eppure ordinate, con squilibri che si ricompongono.
Ma suscita (può suscitare) anche l’impressione, opposta, di costituire un agglomerato residuale di una società consumistica, rimandandone ad un forte impatto.
Quale delle due? Lasciamo la parola all’opera. E’ vero che in essa tutti gli oggetti possono venir percepiti come accatastati, forse abbandonati, in un mucchio anonimo; ma ciascuno di essi mantiene una testimonianza. Qui non sono “scartati”, “gettati fra le altre cose”, come in una informe discarica, ma raccolti in un insieme omogeneo e di per sé significativo.
Niente vieta di considerarli “rifiuti selezionati”: ma altrettanto legittimo è, allora, fare riferimento –non di comodo ma di esempio- all’artista (Muniz) che con gli scarti delle discariche di Jarden Gramacho (a nord di Rio de Janeiro) ha costruito e composto insieme ai “catadores” brasiliani una vera opera d’arte andata regolarmente in asta e comprata.
Così non ci sarebbe illegittimità o contraddizione a considerare quest’opera di Fresu secondo tutti e due i punti di vista sopra indicati: riflettere sulle modalità della società contemporanea consumistica, sui modi per rappresentarla, o criticarla, e farlo con i mezzi dell’arte.Su questi aspetti l’arte può dire la sua.
Dunque cosa c’è in questa costruzione di Fresu? Cosa la caratterizza?
Indubbiamente il forte impatto materico, che è una costante del lavoro di Fresu. C’è però (sopratutto) la suggestione dei ricordi, la memoria dell’infanzia. In essa si leggono i momenti fissati e recuperati nei giocattoli, insieme alle voci e alla gioia di un tempo. C’è la tenerezza di un passato. E l’accumulo di un vissuto. Viene voglia di rovistare tra quegli oggetti per trovare o riconoscere qualcosa di caro, recuperare la commozione di come siamo stati, la traccia significativa di una esperienza.
E tutto torna vivo, non coperto di polvere, ma legato al proprio cuore. Tutto sembra accatastato in una sorta di partecipazione collettiva che coinvolge tutti ei ciascuno, in un “depositum memoriae”, in una sedimentazione di esperienze comuni.
E’ un’opera che evoca la costruzione di qualcosa di tradizionalmente appartenente alla cultura del villaggio, ossia di una comunità, fosse anche sotto la specie di un moderno totem. E’ la rievocazione di qualcosa di simbolico. Il sabato si riconosce in questa partecipazione collettiva, in questo ritrovarsi per comunicare, specialmente dopo i momenti settimanali vissuti individualmente, come si fa nelle feste di paese quando ci si riconosce in qualcosa.
Qui il giocattolo assume l’aspetto –e il valore- di un richiamo che non ha età perché attraversa generazioni; riproponendosi appunto come segno di una comunità.
Tamburi, trombette, monopattini, carriole, bici, birilli, bocce e palloni, orsetti, libri… un universo d’infanzia, uno spazio affettivo che costituisce un monumento non/monumento, un libero accostarsi di ricordi, dove gli oggetti mantengono la loro evidenza e pur godendo di vita propria. Costruiscono l’insieme di questa torre da favola, di questa catasta di piccole meraviglie. Il lavoro di Fresu è’ un Carro di Tespi fatto di giocattoli.
Questa piramide , dominata dai forti chiaroscuri del grigio, piena di anfratti e protuberanze, di improbabili accostamenti di volumi, di azzardati equilibri fa immaginare una camuffata fontanella barocca. Essa induce un ’effetto meraviglia che apre il gioco, finalmente gustoso, di liberare la fantasia dell’infanzia. Si, questa opera di Fresu può essere una favola scolpita .
Costruzione ludica, allusiva alla necessità di ritrovare nei giocattoli –nell’attività del gioco- quella parte migliore dell’umanità che inventa e conosce, progetta e simbolizza, vive e sperimenta le proprie emozioni. E quel cavallino che svetta sul tutto e su tutti gli altri oggetti, non può essere casuale: dal punto di vista visivo dà all’accumulo uno slancio e una tensione dinamica; dal unto di vista formale riunisce in sé la spinta sovrapposta degli oggetti, che tendono a sbucar fuori, per portarli con sé, come in un salto. E’ una forza emergente e trascinante, un segno di vitalità. Una corsa originata in /e/su quell’agglomerato, come se internamente ad esso ci fosse un l gioco , ed ogni oggetto ne è parte.
In questa massa ricostruita i giocattoli sembrano spingersi, prendersi e rincorrersi: gli squilibri voluti sono ricomposti, con astuzia e garbo, per consentire a tutti di “essere sulla scena”. Gli giri intorno e vedi il teatro che riaffiora in quel mondo di favola. Che sia un mondo semi-incantato? O stregato da una condanna all’oblìo? O, peggio, alla bulimia del consumo? Torna il dilemma iniziale.
Ma l’opera è ancora lì, sullo spazio pubblico, a richiamare l’umanità di questi giochi, il loro carico di felicità nella loro funzione creativa. Ma soprattutto essa non è, come monito, una catasta da bruciare, da eliminare. Tantomeno è un rogo.”