“Mi cuerpo y su alma” di Lucia Guadalupe Guillén – Torre campanaria di Castellaro Lagusello (mn)

Secondo della stagione espositiva nella Torre campanaria di Castellaro Lagusello (mn)

L’installazione site specific sarà visitabile dal 25 maggio al 2 giugno 2024
L’inaugurazione sarà sabato 25 maggio dalle ore 16.00 alle ore 21
È un progetto a Cura di Antonella Bosio
i testi sono di Mauro Valsecchi
In collaborazione con Fondazione Città di Monzambano e comune di Monzambano
“Mi cuerpo y su alma” di Lucia Guadalupe Guillén – testo a cura di Mauro Valsecchi
Il secondo capitolo del progetto artistico “Una Torre per l’Arte”, curato da Antonella Bosio, nella torre campanaria di Castellaro Lagusello, è una mostra narrata dalle mani e dalla voce di Lucia Guadalupe Guillén in un linguaggio visuale eclettico, che spazia dalle tonalità leggere e delicate sino alle sonorità limpide e brillanti. Attraversando ogni piano, salendo rampa dopo rampa, varieranno gli elementi formali ed espressivi: immagini, testi, melodie, oggetti; ma l’atmosfera resta una dimensione di vita familiare, calda, un limbo quotidiano e una necessità emozionale di ricominciare partendo da qualcosa che si è svuotato in noi.
L’artista nasce in Argentina, a Rio Gallegos, una cittadina all’estremo sud della Patagonia, una terra maestosa e austera: dai paesaggi larghi e infiniti, dai colori diurni di una perenne alba invernale, e dalle notti fisse e gelide dove bisogna alzare il naso verso le stelle per non sentirsi soli. Lucia Guadalupe Guillén inizia a disegnare e a dipingere sin da piccola, percependo questi momenti creativi come un rifugio personale ma successivamente anche un momento di condivisione con le persone che le stanno accanto, in particolare nel rapporto con sua sorella gemella, Isabel: inesauribile fonte d’amore, nonché d’ispirazione artistica. In Italia poi consolida la sua formazione all’Accademia di Belle Arti a Venezia e presso l’Accademia di Brera a Milano.
Nella Torre, l’artista, ha progettato un vero e proprio percorso narrativo dal titolo “Mi cuerpo y su alma”, dove ogni installazione è frutto di una collaborazione congiunta. Al primo piano Lucia Guadalupe Guillén si presenta celando la sua apparenza: un dipinto su tela di una tenda, o un tappeto, forse un arazzo, da dove spuntano delle gambe dal ginocchio in giù; le gradazioni delle terre amalgamano e armonizzano le differenze tonali mettendo tutto sullo stesso piano e facendo dubitare se quella figura nascosta dietro al tessuto sia una presenza, un doppio, un riflesso, oppure una malinconica assenza.
Lasciando alle spalle un mistero si salgono le scale e ci si ritrova davanti a un mistero ancora più avvolgente: l’arcana installazione è composta da una moltitudine reiterata corpi femminili raffigurati che aleggiano nell’aria e nella musica. L’artista, nelle sue opere, predilige l’uso di pastelli e matite e colori acrilici, che spesso implementa di materia con frammenti di carta, piccoli elementi in plastica, tessiture; qui a saturare lo spazio ci sono una serie di dipinti su tela, di disegni su fogli da lucido, e di ricami su fogli da lucido dalle dimensioni variabili: alcuni tondi e bordati, altri più sfrangiati e effimeri, ma ogni rappresentazione è un corpo. O meglio, una parte del corpo intero: prettamente si tratta di un’inquadratura che va da sotto lo sterno alle ginocchia: queste parti di corpo sono vestite di abiti semplici, come maglie, canottiere, pantaloncini, gonne corte, e mantengono una posa statica. La scelta di non disegnare volti è precisa, ponderata: infatti senza i volti questi personaggi sono dati come esseri umani generici esposti alla vita: ad essere anonimi ci si dimentica di essere se stessi e si può essere chiunque. Oltretutto, non a caso, il centro focale diventa il ventre: forse ristagno di emozioni, può darsi sede dell’anima; ma sicuramente sede di un cervello viscerale che ha pari importanza di quello a capo del sistema nervoso centrale. Lucia Guadalupe Guillén da anche molta importanza alla gestualità di questi corpi femminili raffigurati: le mani pesanti appoggiate sui fianchi, le braccia lunghe distese ma i pugni stretti, le cosce accavallate e i palmi che si offrono: hanno a che fare con una prossemica non verbale legata alla volontà specifica di un sentimento cristallizzato nel tempo. Quindi i corpi femminili raffigurati non parlano con la voce, eppure non c’è silenzio: una musica vibra nei timpani: flauto traverso, violino, pianoforte, chitarra e percussioni. Lucia Guadalupe Guillén non è mai sola in questa mostra, cerca sempre punti di contatto con altri artisti, persone amate; cerca di
mescolare la creatività con l’affettività, e ci riesce quando ogni figura disegnata, dipinta o cucita viene cullata dalla melodia intitolata “Il respiro dei sogni”, composta dal fratello musicista Darío Gastón Guillén.
L’artista è una narratrice in un periodo storico dove i narratori si stanno estinguendo. “Mi cuerpo y su alma” non è solo un titolo ma anche un messaggio, enigmatico di certo però non indecifrabile. La voce è come se ci parlasse da quel vecchio telefono a muro a casa di nonna, non perché voglia prendere le distanze ma perché noi siamo sempre meno abituati a poggiare l’orecchio sulle cose per ascoltare le storie degli altri. Però le storie, coi loro toni, accenti e temporalità, ci compongono e descrivono il mondo che abitiamo: l’arte di Lucia Guadalupe Guillén sono storie che danno senso al continuo cambiare degli stati d’animo, momento per momento, sotto i nostri occhi e sotto i nostri piedi, e questo perpetuo cambiare di emozioni, veloci come nuvole in una giornata primaverile, è un’esperienza meravigliosamente ordinaria. Quello che ci rimane addosso, cucito come una veste, della narrazione è la concretezza del corpo e l’ineffabilità dell’anima: la sua, la tua e la nostra: è il senso cangiante dell’essenza, che non vediamo ma sentiamo sopra e sotto pelle come una corrente d’aria, fatta di piccole nevrosi, gioie, dolori, passioni, rabbie e malinconie.
Salendo ancora ci si trova al piano più buio della Torre, e l’artista ha voluto esaltare questa peculiarità ambientale per creare un’altra installazione che scaldasse le percettività. Una voce registrata recita delle frasi poetiche e nel contempo queste frasi prendono forma scritta con una video proiezione sul pavimento ligneo. I mostri di solitudine sono il disincanto che prolifera tra gli esseri umani, sacche di estraneità che si formano all’interno della vita sociale, e le masse contemporanee sono la somma di unità separate che restano separate. Invece Lucia Guadalupe Guillén tende a incantare di nuovo il mondo, e non lo fa da sola: sceglie di richiamare un’altra artista, un’altra persona cara: Arianna Vadrucci, poetessa ed educatrice, che ha scritto le parole recitate nell’aria e impresse nella luce: un flusso di coscienza, un mantra pacificante; ci si trova ad ascoltare e recitare pensieri come dentro quel ventre precedentemente visto da fuori nei dipinti volteggianti. E, prima di riprendere l’ascesa, un altro dipinto si nasconde nella penombra, un corpo femminile sdraiato, dalle linee filiformi, i colori evanescenti ma lo sguardo fisso verso l’osservatore: potrebbe essere un autoritratto, oppure è Isabel; sicuramente è una guida silenziosa che ci accompagna attraverso le tenebre.
Giunti all’ultimo piano tutto si semplifica nella forma per esaltare la risonanza emozionale. Un oggetto mistico: l’acchiappasogni, che apre la fine dell’esposizione a un esterno sconfinato, infinito come quei paesaggi della Patagonia, identificandone un cammino prossimo beneaugurante; e Lucia Guadalupe Guillén rimane con noi anche dopo la mostra, omaggiando chi le ha dedicato tempo ed energie con un augurio: una frase scritta su carta da tenersi stretta.
In conclusione si capisce: in noi si è svuotato un aspetto tipico della nostra specie: l’umanità. L’umanità innanzitutto è capacità di ascolto e di racconto; parlare e parlarsi delle avventure, comporre micro storie che si svolgono in una dimensione di condivisione: per stare insieme; di coinvolgimento: per stare bene. Lucia Guadalupe Guillén non ha abbandonato l’interiorità scomoda, i sentimenti tumultuosi, le complessità comunicative, le rabbie taciturne, ma le ha accettate e ci mostra come coltivare e proteggere queste piccole isole di coscienza; isole a cui aggrapparci per non affogare nella futuribile Pantalassa: unico, immenso oceano di individualismo e indifferenza, sempre pronto ad sommergere l’affettività verso il prossimo, l’altro, che non siamo noi ma ci somiglia: nel corpo e nell’anima restiamo umani.
(M.V.)