MODALITA’: NO HUMANS – Andrea Nuovo Home Gallery – Napoli

MODALITA’: NO HUMANS

a cura di Massimo Sgroi

01/10/2021 – 07/01/2022

Opening 1 – 2 Ottobre 2021, dalle h 11.00 alle h 19:00

Con “Modalità: No Humans”, mostra a cura di Massimo Sgroi, la Andrea Nuovo Home Gallery inaugura a Napoli nei giorni 1 e 2 Ottobre 2021, dalle ore 11:00 alle ore 19:00 in via Monte di Dio, 61.

Güler Ates, Jean Michel Bihorel, Patrick Jacobs, Federica Limongelli, Suzanne Moxhay, Barbara Nati, Helene Pavlopoulou e Simon Reilly sono gli otto artisti che, da varie parti del mondo, espongono nei due livelli della home gallery con oltre 20 opere che vanno dalla figurazione all’astrazione.

Il progetto espositivo indaga lo status psichico dell’individuo in cui la tecnologia e l’innovazione favoriscono sì il progresso della società, ma allo stesso tempo mette in discussione la funzione del singolo, provocando così una sorta di svuotamento delle sue emozioni. Ciò comporta talvolta uno smarrimento del concetto di bellezza, condivisione e progresso, ma anche dell’ambiente urbano e naturale, quest’ultimo sempre più fragile e ribelle all’azione dell’uomo.

In tutto questo che senso ha ancora l’arte visuale? Ha, ancora, la potenza di svelare l’inganno o è, piuttosto, l’appiattimento formale sul corpo ibrido della visione estetica neoliberista?”, precisa il curatore Massimo Sgroi.

E aggiunge: “In questa mostra abbiamo piegato il codice linguistico e segnico, appunto, rendendolo funzionale al progetto che, come una Gestalt, va al di là della sommatoria delle singole opere. Il progetto che contiene, nelle scatole cinesi dell’evento l’una dentro l’altra, la narrazione, le funzione estetica percettiva visuale e la concettualità stessa delle opere; come un sistema strutturato come la codificazione onion del programma Tor (per usare l’onnipresente linguaggio cibernetico) lascia libero lo spettatore di scendere dentro le profondità installative della mostra stessa fino a percepire, da sé, la terribile condizione che mette il pianeta Terra nella modalità: No Humans”.

Ora astratti ora surreali, tra pittura, fotografia, diorami e dipinti digitali, ciascun artista affronta l’argomento con la propria tecnica tra ricordi e immaginazione per creare nuovi mondi e nuovi scenari. Vulnerabile alla globalizzazione, la figura dell’individuo è il focus della sala principale, per poi proseguire il percorso al piano superiore dello spazio espositivo, in cui il linguaggio concettuale perde completamente la figura umana per lasciare spazio a tutto il resto; dai colori decisi e impattanti si susseguono paesaggi metafisici da scoprire e su cui riflettere. Da qui, “Modalità: No Humans”.

In osservanza alle normative anti-Covid19, la mostra sarà visitabile secondo gli orari della home gallery fino al 7 Gennaio 2022.

Scheda mostra collettiva

Modalità: No Humans

A cura di Massimo Sgroi

Artisti: Güler Ates, Jean Michel Bihorel, Patrick Jacobs, Federica Limongelli, Suzanne Moxhay, Barbara Nati, Helene Pavlopoulou e Simon Reilly.

Durata: 01/10/2021 – 07/01/2022

Opening: in ottemperanza alle normative anti-Covid19, l’opening si svolgerà nei giorni 1 – 2 Ottobre 2021, dalle h 11.00 alle h 19:00. Evento Facebook.

Testo Critico e il racconto Il viaggio di Shundine a cura di Massimo Sgroi

Photo credit: [Nome Artista + Titolo Opera di riferimento], Modalità: No Humans, 2021. Courtesy Andrea Nuovo Home Gallery

Andrea Nuovo Home Gallery

Via Monte di Dio, 61, 80132 – Napoli

Tel. +39 081-18638995 – Cel. +39 347-6144570

www.andreanuovo.com/info@andreanuovo.com

#andreanuovohomegallery #modalitànohumans

Orari: martedì – venerdì, ore 10:00 – 13:15 e 16:15 – 19:00

Sabato, domenica e lunedì su appuntamento / Ingresso Libero

Ufficio Stampa: Fabio Pariante – fabiopariante@gmail.com |

MODALITA’: NO HUMANS

A cura di Massimo Sgroi

Quando la visone immaginifica del futuro si ribalta sul progetto a brevissimo termine, l’angoscia psichica dell’umano del terzo millennio prende il sopravvento sulla retorica della Bellezza. Più che salvare il mondo essa diventa estroflesso paesaggio del vuoto dell’anima sedimentando angosciosi strati della previsione della catastrofe, ciò che porterà il pianeta alla modalità No Humans

Paradossalmente in un mondo dominato dal web l’umano perde la capacità di pensare in termini collettivi isolandosi nel pensiero individuale nell’attesa del punto di non ritorno. La sublimazione del desiderio non si manifesta più in termini attrattivi o come assecondamento della pulsione erotica, essa diventa piuttosto distruttiva, violenta, aggressiva e prigioniera (vedi il problema pandemico, ad esempio) di regole precodificate da altri. E la coscienza etica diventa aggressione verso l’avversario. 

Nell’equivoco di fondo che si crea in una simile condizione sociale, l’ambiente, la problematica della protezione del nostro ecosistema diventa “altro da noi” quando, al contrario, è parte integrante della nostra stessa esistenza; come il bambino sopravvive grazie al sacco amniotico materno, allo stesso modo l’essere umano esiste in quanto simbionte dell’intero sistema che lo circonda. Come sosteneva Jean Baudrillard, già molto tempo fa: Il peggio non è che siamo sommersi dai rifiuti della concentrazione industriale e urbana bensì che noi stessi siamo trasformati in residuati”. La specie umana, mirando all’immortalità virtuale (tecnica) sta perdendo la sua particolare immunità”.

In tutto questo siamo tutti consumatori schizofrenici di merce, di status symbol pagati attraverso il caro prezzo della distruzione ambientale; il liberismo selvaggio si nutre di estetica, feticcio malata dalla ridondante necessità di creare nuovi simulacri di potere. Bisognerebbe smetterla di essere ologrammi di noi stessi sacrificati sull’altare di una scienza solo fintamente positiva e che prevede la visione reversibile della dicotomia causa/effetto. 

In tutto questo che senso ha ancora l’arte visuale? Ha, ancora, la potenza di svelare l’inganno o è, piuttosto, l’appiattimento formale sul corpo ibrido della visione estetica neoliberista? Cioè, per tornare al Delitto perfetto del filosofo francese: se la realtà è accelerata dalla tecnologia, che la spinge verso le sue più estreme e paradossali conseguenze, allora il pensiero deve essere più veloce e più paradossale della realtà stessa. Detto con le sue parole: “Bisogna prendere in trappola la realtà, bisogna essere più veloci di lei”. Ma l’arte, oggi (per lo meno nella sua parte di sistema) altro non è che l’estensione visuale e formale dell’immanente sistema finanziario; essa ne assume le forme producendo la merce feticcio (spesso copertura per il riciclaggio e la creazione di fondi neri) figlia barocca del cosiddetto “capitalismo perfetto” (di cui parla Karl Marx nel terzo libro del Capitale) ovvero quella che produce denaro senza generare né merce né cultura ma solo simulacri auto riproducenti.

Nel mondo sottoposto alla oscura teosofia del denaro (ovvero fine a se stessa) di questa forma di società globalizzata l’artista può essere ancora un detonatore di un accadere che rompa questa geometria dell’assioma teratologico del pianeta o, almeno, come sostiene Gerhard Richter, a consolare? La risposta è sì, a patto che essa viva e si produca al di fuori delle rigide regole del sistema. Sono le cosiddette “isole di libertà” in cui è ancora possibile essere radicali rispetto alla immanente egemonia economica culturale. L’arte riscrive i suoi segni, le sue strutture linguistiche spesso in maniera inconsapevole ma, non per questo, meno potente. 

In questa mostra abbiamo piegato il codice linguistico e segnico, appunto, rendendolo funzionale al progetto che, come una Gestalt, va al di là della sommatoria delle singole opere. Il progetto che contiene, nelle scatole cinesi dell’evento l’una dentro l’altra, la narrazione, le funzione estetica percettiva visuale e la concettualità stessa delle opere; come un sistema strutturato come la codificazione onion del programma Tor (per usare l’onnipresente linguaggio cibernetico) lascia libero lo spettatore di scendere dentro le profondità installative della mostra stessa fino a percepire, da sé, la terribile condizione che mette il pianeta Terra nella modalità: No Humans.

E, così la trasgressione paradigmatica dell’accumulo di memorie di Helene Pavlopoulou rappresenta l’attualizzazione del mito della Caverna di Platone; la metafora delle ombre di realtà rilegge la nostra memoria appiattendola sulla parete del virtuale. Come sulle pareti della caverna di Platone, l’opera della Pavlopoulou è solo la rappresentazione del reale; attraverso un cromatismo inverso l’artista greca sovrappone il reale al virtuale, la materia all’impalpabile. La dea Mnemosyne torna a ri-velare il suo volto cancellando, forse per sempre, l’assioma comune del ricordo come a significare che non esiste memoria se non c’è nessuno a ricordare. 

Ma se è vero che tutto ciò che è solido è destinato a svanire nell’aria, allora il corpo dell’umano, il volto, lo sguardo ed il pensiero stesso si trasformano in fantasmi evanescenti come nel lavoro di Federica Limongelli. Una sottrazione, attraverso la sua pittura elettronica, dell’accumulo di realtà che è il vero presupposto alla sparizione dell’umano. Umano che attraversa, nella sua sostanza fantasmatica, i luoghi in cui la specie morente ha costruito la sua magnificenza; è il corpo che invade il paesaggio e non il contrario. 

Ed allora l’appartenenza fisica viene soppiantata dalla complessità multimedialica dei mondi elettronici attraverso i quali non abbiamo più identità, siamo, semplicemente e completamente extracorporei ed extraterritoriali. Güler Ates costruisce così i suoi eidola colorati, simulacri di una esistenza ormai persi nella struggente risposta di una uscita dal mondo. Nella mistica della visione contemporanea, l’esistenza stessa di un messaggio e di un codice che lo rappresenta implica l’esistenza stessa di un codificatore che altri non è che l’artista turca stessa. Güler Ates, partendo dalle architetture, finisce per essere costruttrice di mondi. 

Ed è da questa uscita dagli spazi che nasce il mondo pacificato nell’ambiente naturale di Suzanne Moxhay, laddove le tracce dell’umano vengono lentamente cancellate dal processo di sostituzione. Lo stesso riferimento ad una pittura arcadica dell’artista inglese, ne identifica la necessità paradossale che per abolire la schiavitù dell’umano dalle pulsioni teratologiche sia obbligatorio cancellare l’umanità stessa. E se è vero che la logica degli umani, nel suo spostarsi di continuo verso le alterità tecnologiche, ha assunto un atteggiamento distruttivo verso ciò che è memoria ed ambiente naturale, essa non può che presupporre una definitiva pacificazione attraverso la sua assenza. 

È questo il presupposto per garantire la sopravvivenza del pianeta laddove il gigantismo delle forme diventa tragitto surreale verso la definitiva riappropriazione del come avviene nelle opere di Barbara Nati. L’eccesso irreale delle forme naturali che seppelliscono sotto la sovrabbondanza di forme le poche tracce rimaste; è il compimento della teoria della sparizione dove l’umano non sparisce sotto un eccesso di realtà elettroniche ma, piuttosto, verso una realtà aumentata della stessa natura. Il media landscape delle immagini della Nati si trasforma nel concetto heideggeriano dell’abitare il mondo laddove le tracce e non più la presenza ne rappresentano i simulacri del suo passaggio. 

Questa sintesi formale è, allora, premessa per il progetto di Jean Michel Bihorel; nel suo lavoro gli elementi naturali non muoiono, si gonfiano, piuttosto, fino all’eccesso spiazzando le relazioni visive fra l’arte del reale e l’estensione che il digitale consente. Ciò che appare, alla fine, è una super realtà possibile in cui il grande programmatore finisce per essere la Natura stessa. Nell’opera di Bihorel tutti i media finiscono per essere funzionali ad un progetto surreale in cui la concezione omocentrica finisce sepolta sotto la cornice infranta del pensiero come forma definita. 

Natura che, all’estremo limite finisce per trasformarsi in un groviglio mutante di elementi astratti come nel lavoro di Simon Reilly. La forma trascende se stessa, si aggroviglia cancellando completamente la premessa formale dell’umano, il ciclo diventa completo, la struttura si polverizza e nel farlo crea le condizioni per una nuova palingenesi figlia di un’entropia assoluta del pianeta. La funzione corporea si perde, quasi dissolvendosi, all’interno dell’elemento naturale proprio attraverso i cromatismi che lo richiamano. E l’immaterialità della visione è l’elemento centrale della dissoluzione. 

Reilly diventa la necessaria premessa, allora, al lavoro di Patrick Jacobs; le installazioni dell’artista americano sono delle aperture verso i mondi dell’alterità, laddove forma estetica e struttura formale del paesaggio si trasformano in ricerca estetica dal valore metafisico. L’essere al centro di questa nuova funzione estetica significa identificare il luogo, inteso come landscape dell’alterità, come detonatore dell’accadere artistico, rendendolo relazionale alla mutazione della visione. Reale e più del reale che, attraverso l’entropia del sistema natura, diventano ricerca di Bellezza, quella funzione estetica che a noi, imprigionati sulla superficie del pianeta, viene quasi sempre fisicamente negata ma che è possibile nel mondo del sogno. Perché, in fondo, noi siamo e restiamo dreamers.

Nella condizione di consapevole ibridazione della natura l’umano, quindi, sceglie la presunzione di essere creatore egli stesso, manipolando la terra e gli esseri che ci vivono; questa follia degenerativa si rappresenta, simbolicamente, nel mulo, l’animale che l’uomo crea e che, senza l’intervento umano, non sopravviverà non potendosi, infatti, riprodurre. Il mulo diventa, allora, la metafora della nostra stessa esistenza ridelegando all’umano la scelta di far continuare a vivere il pianeta o di distruggerlo del tutto. Una assunzione di responsabilità prima che la natura stessa rifiuti definitivamente quello che lo scrittore americano Philip Dick definiva: “Fragile, bipede, senziente e parassita del pianeta Terra”.

Massimo Sgroi

Il viaggio di Shundine

A cura di Massimo Sgroi

 

Shundine dormiva. E nello scivolare nel sonno aveva assunto una posizione che ricordava L’assassinio di Marat, di David, uno dei quadri che preferiva fra le migliaia che conosceva a memoria. Sebbene vivesse in Europa da tanti anni, il Bisonte Bianco continuava a parlarle della sua ascendenza Navajo ed il sogno del Mondo le mostrava un ecosistema esistente al di là degli oscuri assiomi teratologici della vita reale. Sul parquet di legno di rovere chiaro era scivolato un romanzo che profetizzava un futuro prossimo dalle tinte oscure; la mano sfiorava il libro accarezzandolo inconsapevole. William Gibson non era fatto per conciliare il sonno. 

Per uno strano caso del destino era volata in un ricordo malinconico della sua vita di bambina; la radura era piena di sole ed i grattacieli, che pure erano tutt’altro che trascurabili e che si trovavano a poche centinaia di metri erano invisibili. Nelle sue memorie di bambina era una delle cose che la aveva resa più felice. Gli era sembrato di vivere in una assoluta simbiosi con la natura; lei era parte della luce e degli alberi ed essi erano parte del suo essere. Aprì gli occhi di scatto, tutto era troppo armonico nei suoni ma non riusciva ad avvertire le note stonate che noi umani siamo capaci di produrre in qualsiasi parte del mondo. La troppa bellezza, a volte, fa paura.

Tutto era troppo perfetto, apparteneva più al sogno che non alla vita reale; persino i chiassosi vicini tacevano. Scese lentamente le scale. Per antica abitudine non prendeva quasi mai l’ascensore; preferiva, da sempre, contare i gradini il cui numero conosceva a memoria. In fondo l’esistenza è fatta anche da queste piccole, innocenti manie. Poche decine di metri dopo la sua nuova casa la strada presentava una biforcazione; da un lato il paese, dall’altro un ponte che scavalcava l’ossessiva marcia delle auto sull’autostrada; un lungo nastro di cemento che collegava le città della nebbia con quelle più abituate alla rumorosa vita fuori dalle case. 

Superato il fiume della moderna follia la strada si restringeva diventando una tranquilla via di campagna. Via del Silenzio, appunto. Ci volle un centinaio di metri per capire; nessuna macchina aveva attraversato il serpente di cemento. Alzò la testa. Il grosso animale bianco come solo gli albini sanno essere la osservava e, quando parlò, lei si diede uno schiaffo e scoprì che sogno non era. Se da tutte le lacrime che cadono sulla terra fosse nato un fiore il mondo sarebbe stato un infinito campo colorato. 

La sua discendenza Navajo la salvò; aveva imparato dal nonno che spesso i misteri non sono poi tali. Io sono la terra stessa –  continuò l’animale – io vi ho creato ed io vi ho cancellato. Per troppo tempo vi ho concesso di distruggere la Natura e la sublime armonia che la attraversava. Ora basta. E prima che la tua specie avesse finito di creare danni irreparabili ho restituito a me stessa la Bellezza. Ora tu, ultima donna, vedrai per tutti. 

Il battito del cuore era talmente forte che Shundine lo sentiva fisicamente e, prima che pensasse di essere pazza, l’animale si voltò lasciandola sola. Si inoltrò nelle strade del paese, tutto era come doveva essere, mancavano solo gli esseri umani. Persino le auto erano ferme per strada con le chiavi inserite. Ne prese una e raggiunse la grande città che distava poche decine di chilometri; niente. Tutto era uguale, tutto era vivo e senza umani.

Per prima comiciò a sparire la memoria. I detriti architettonici greci, romani, egiziani, rinascimentali persero di colpo senso; come diceva un koan zen: se un albero cade nella foresta e nessuno lo vede non è mai caduto. Poi immaginò i corpi che diventavano sempre più evanescenti passando dalla condizione fisica alla dissoluzione nell’aria. Si vide come un fantasma coperto da stoffe colorate che attraversava da sola i luoghi della Bellezza umana; non avevano prodotto solo distruzione e, questo, le provocò una fitta al cuore. Il tempo passò. 

Il mondo vegetale riprese possesso del suo armonico equilibrio; un uccello selvatico attraversava una finestra quasi completamente corrosa dall’edera. Architetture di alberi intrecciati richiamavano il delirio di un architetto folle ed il gigantismo degli alberi morti sovrastava la formazione delle sterminate foreste che tornavano a ricoprire il pianeta. Fino a che tutto sparì sepolto sotto un entropico intrico inestricabile. 

Time goes by, canticchiò nella sua testa mentre la musica la portava verso una formazione innaturale nella sua geometria e, poco prima che il tempo della sua vita finisse ritrovò la radura dei sogni di bambina. Due finestre circolari si aprivano al centro; guardando al di là vide i mondi del possibile. La Madre aveva considerato di dare un’altra possibilità alla sua specie. Shundine pianse e dalle lacrime che caddero sulla terra nacquero fiori colorati. La sua domanda era diventata la definitiva risposta.

Massimo Sgroi

2021