Nicola Piscopo, testo critico di Jacopo Volpi
KRAMPFANFALLE – NICOLA PISCOPO
La rifinitura degli ombratili contorni digrada gli occhi arguti delle maschere biancastre che, oniricamente suggellate dall’enfiatura della pennellata, smuovono solennemente l’intero dipinto con inumano vigore; l’inumano, appunto, che erge egemonico tramite le strozzature d’intagli di faringi, di trachee, di esofagi, esimie componenti fra i volti ghignanti, tralucenti d’un candore quasi sub-emisferico, semi-periferico, disgiunte dall’asciuttezza dei giorni di quiete o, ancor meglio, baluginanti in un senso di non-vitale pienezza tumefatto dall’imposizione logica della tela.
Un continuo sviscerare, quindi, i monitoraggi del nostro essere così fin troppo domato, sì massimamente mercificato da un soverchio di inibite passioni, riesce a dar vita ad un corteggio di dipinti che dimostrano la fervente priorità di disumanizzare, di abiurare alle competenze delle espressioni del diurno per render, tuttavia, ancor più umane queste urla apocalittiche, questi occhi disadorni d’agghiacciante apatia, codesti intricamenti di membra primigenie avvolte da un glabro mescolio d’ossa, pastose in un cereo melmoso velato dall’oscuro sipario della tela. Le tele, difatti, si confermano, in serie ripetute, color corvino, esasperando sempre più il contrasto tra “quella” realtà e “questa” realtà: quella dell’altro, del fuori, del mondo esterno nei confronti del quale sembrano puranco rivolgersi, quantunque con un annebbiato sussurro, gli strepiti delle figure deformate; e questa realtà, quella dell’individuo, ch’esso ritrova confrontandosi con se medesimo e con le proprie inevitabili contraddizioni e nei confronti delle quali le sagome semoventi non sembrano che un’ostinata sperimentazione, un immenso e misero atto di rassegnazione dal quale nient’altro deriva che un martellante e reiterato sforzo psico-fisico che assurge, incondizionato, a valor di inesplicabile tentativo.
Se allora, ragion vorrebbe, comprensione istantanea e simulata identificazione con le rivelazioni a cui possiamo prestarci, la gagliardia catartica su cui si dispongono tali trasgressioni minimali che insorgono attraverso formose balbuzie e zirli di silente terrore, suggeriscono un atteggiamento che si dimostri volutamente ottenebrato, opaco, indecifrabile affinché questo esercizio di (ri)scoperta dell’essere possa effettivamente esplicarsi senza repressione alcuna ma, piuttosto, emancipandosi dai limiti preimpostati con cui, volenti o nolenti, dobbiamo continuamente raffrontarci.
Jacopo Volpi