Mantova – Via Ippolito Nievo 10 – Tel. 0376 324260
La Galleria “Arianna Sartori”, nella sede di Via Ippolito Nievo 10, presenta la mostra “PITTURA STILI REINVENZIONI” con le opere di: Fernanda Colangeli – Concita De Palma – Marilena Evangelista – Marco Iannetti – Teresa Michetti – Silvia Orlandi – Nicoletta Testa, a cura di GabriellaCapodiferro e AriannaSartori.
La mostra si inaugura Sabato 15 Ottobre alle ore 17.00, presenti gli Artisti, Gabriella Capodiferro e con la presentazione del critico Chiara Strozzieri autrice del testo in catalogo.
PITTURA STILI REINVENZIONI
di Chiara Strozzieri
La galleria Sartori di Mantova ha creato negli anni un connubio con la scuola d’arte di Chieti diretta dall’artista Gabriella Capodiferro, offrendosi di ospitare non soltanto una storica personale di quest’ultima nel 2018, ma anche una collettiva, due anni più tardi, che facesse luce sulle diverse linee di ricerca adottate da allievi che ormai seguono i suoi insegnamenti da circa un ventennio. Stavolta il lavoro sinergico di Capodiferro, qui nell’inedita veste di curatrice, e di Arianna Sartori, che ha intercettato le potenzialità del progetto, ha permesso a un ristretto numero di artisti della scuola di mettersi in prima linea, esponendo per la prima volta da soli un nutrito numero di opere recenti.
C’è da dire che l’attività della scuola è da sempre supportata dall’associazione culturale teatina, Movimento del Guardare Creativo, di cui molti allievi fanno parte e che sposa l’idea di sviluppare grazie a diversi progetti uno spirito critico nei confronti di tutto ciò che va osservato, in primis l’arte. E lo stesso approccio è suggerito anche allo spettatore, al quale viene richiesto di non sostare passivamente di fronte a un quadro o a una scultura o ancora, a una fotografia, quanto piuttosto di attivare tutte le connessioni con il proprio mondo fantastico e il personale bagaglio di esperienze, per leggere e valutare l’opera. Dunque il fatto che Fernanda Colangeli, Concita De Palma, Marilena Evangelista, Marco Iannetti, Teresa Michetti, Silvia Orlandi, Nicoletta Testa siano pionieri tra gli altri discepoli nel mostrare la loro autenticità, significa che in questo momento loro diventano attivatori di quel guardare creativo auspicato per tanti anni da tutto il gruppo. Ognuno lo fa a suo modo, ma la base di partenza comune è una certa aderenza allo studio portato avanti dalla maestra d’arte, che quest’anno si è focalizzato particolarmente sulla teoria del colore di Josef Albers.
Da una parte, è interessante notare come i nostri artisti, staccandosi in un certo qual modo dal ruolo di allievi, facciano riferimento ad uno degli insegnanti della più innovativa scuola di arte e design del primo Novecento, ovvero la Bauhaus; dall’altra parte, è bene sottolineare come trasmettano attraverso l’esempio le potenzialità dei loro strumenti, tanto quanto Albers invitava a sviluppare l’occhio per il colore. Evidentemente c’è una connessione profonda tra ricerche artistiche contemporanee al di là del tempo che le separa, visto che i traguardi professionali di Albers si sono avvicendati fino al 1976.
La prima a dimostrarlo è Silvia Orlandi, particolarmente interessata a quel manuale del grande artista tedesco, pubblicato per la prima volta nel 1963, che è “Interazione del colore”. Dalle lezioni sul modo di affinare la sensibilità per la luce, lei ha colto l’importanza di saper leggere tutti i colori, compresi il bianco e nero, perché anche questi ultimi possono avere diverse tonalità che si compenetrano in quantità variabili. Ecco allora che la sua ricerca si focalizza sulla dimostrazione delle infinite gradazioni esistenti fra i poli del bianco e del nero, e per fare questo utilizza materiali differenti (carta, gomma, feltro) che per loro stessa natura hanno sfumature di nero diverse. Il suo è un po’ un discorso all’incontrario rispetto agli Achrome di Piero Manzoni degli anni Cinquanta, che invece studiavano la riflessione della luce attraverso oggetti e materia dentro opere completamente bianche. Qui invece il colore viene assorbito e talvolta acceso da lampi di rosso che mettono in moto la composizione, così come fanno i tagli particolari delle opere. Potremmo definire questi lavori di Orlandi come pitto-sculture, adattate alle pareti attraverso fili messi in evidenza, ma eventualmente autonome su qualsiasi tipo di supporto e perfino a pavimento. C’è dunque un grande senso di libertà che in qualche modo resta fedele al discorso di Albers, il quale concepiva le sue lezioni pratiche come un mero accompagnamento alla creatività.
Lo stesso discorso sul tonalismo, anche se affrontato a 360°, considerando tutto l’ampio spettro dei colori, è ripreso da Concita De Palma, anche lei per certi versi materica, soprattutto in una prima fase di sperimentazione. Infatti, per comprendere appieno le gradazioni teorizzate da Albers come scale di colore più o meno intenso, l’artista sovrappone in un primo momento fascette di carta imbevute di tempera e assemblate (Immerso) oppure retini adesivi normalmente utilizzati negli studi di architettura. Questo è il caso di un Omaggio a Bellini e alla sua Madonna dai Cherubini rossi (olio su tavola del 1485, conservato presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia), in cui sapientemente l’artista sceglie un’icona nota, e dunque familiare e riconoscibile, in modo che lo spettatore possa focalizzare l’attenzione sulla tecnica esecutiva. Con la sovrapposizione dei retini simula una stratificazione del colore, che ad ogni pennellata – e in questo caso ad ogni frammento incollato – è reso più intenso.
Lo stesso effetto viene poi riproposto solo ed esclusivamente con la pittura attraverso velature semitrasparenti dalle quali emergono forme geometriche libere, in cerca del loro spazio vitale. De Palma dimostra una conoscenza profonda della storia dell’arte, che va dalle esperienze astratto-geometriche degli anni Cinquanta e Sessanta, a ritroso fino al tonalismo veneto del Cinquecento. Lei ha introiettato la lezione sulla luce di Tiziano, cercando tuttavia di preparare ad ogni evenienza il rapporto cromatico tra le forme bidimensionali inscritte nel quadro.
Sulla bidimensionalità gioca molto Marilena Evangelista, la quale, agendo con metodo ed estrema precisione, riesce a costruire un campo percettivo solido, tanto quanto lo sarebbe un campo tridimensionale. La fase progettuale è il fondamento del suo lavoro, che si arricchisce di studi sulle infinite possibilità di strutturazione prospettica e visuale. In questo senso le vengono incontro quei concetti espressi da Josef Albers, che le suggeriscono una relazione tra linee compositive e zone piatte di colori tonali. L’artista fa sua una concezione del colore quale elemento costruttivo all’interno del quadro, con il suo peso e la sua luce, che si esprime secondo le entità di estensione, densità, assorbimento e radianza. È proprio grazie alla luce che le superfici piatte sviluppano un volume (Triangoli in spostamento libero, Luce imprevista), dimostrando la positività della teoria della percezione: non c’è errore sensorio, né inganno dell’occhio, ma esiste una effettiva correlazione tra le diverse quantità di luce portate da stesure cromatiche uniformi.
Elemento di unicità rispetto all’opera di Albers è la scelta delle figure geometriche fatta da Marilena Evangelista. Se infatti tutti i dipinti del maestro tedesco hanno come punto di partenza l’inscrizione del quadrato dentro un’altra serie di quadrati via via sempre più grandi, la nostra pittrice non crede nell’esistenza di un’unica forma simbolica dello spazio. Liberamente lei riesce a spaziare dal rettangolo al cerchio, dal triangolo alla forma geometrica irregolare, creando sempre un campo percettivo esatto.
Si tratta di una costruzione concreta e non illusiva dello spazio pittorico, che rimanda alla volumetria del colore sfruttata da Teresa Michetti nei suoi dipinti a metà tra il metafisico e il surreale. Da Giorgio De Chirico l’artista prende la coesistenza in uno stesso ambiente di oggetti appartenenti a contesti differenti (vedi l’altalena e l’arancia in Regained freedom), ma anche la piccola figura del filosofo che si staglia all’orizzonte abitando uno spazio così ampio da sembrare subissarlo (Towards). Questi elementi, insieme ad altri prettamente surreali come le forme ingigantite all’inverosimile e gli oggetti personificati, sono resi contemporanei nel senso più stretto del termine grazie a un minuzioso lavoro sul colore.
Il tonalismo di Albers è solo accennato nei cieli risultanti da stratificazioni cromatiche, mentre il discorso sulle potenzialità che ogni colore è in grado di esprimere grazie alla vicinanza con gli altri è ben evidenziato in ogni lavoro. Toni freddi e caldi dialogano bene fra loro, potenziandosi vicendevolmente, e in generale tutti i timbri prediletti si solidificano negli oggetti, chiarendone la volumetria. Questo fa sì che, al di là dei significati reconditi del quadro, la sua ragione d’essere sia da ricercare nella densità o profondità del campo percettivo. Viene creata una non-realtà – si potrebbe pensare a uno spazio metafisico o alla dimensione onirica surreale – che accoglie tutti gli elementi compositivi, prima ancora di lasciare adito al pensiero per le sue interpretazioni.
La fantasia dello spettatore riesce dunque ad essere stimolata anche quando sono presenti opere figurative, per definizione più descrittive rispetto a lavori di tipo astratto o informale. A metà strada tra le une e gli altri si inserisce la linea di ricerca di Nicoletta Testa, la quale riesce a sfruttare in suo favore l’utilizzo di rimandi alla realtà fenomenica. È il caso di un Sipario,realizzato attraverso un trittico di tele trattate con pigmenti a colla, che apre la scena su un fantomatico bosco incantato dove appunto, solo superficialmente ci si riferisce alla natura, perché tutto è pretesto per lo studio del colore.
L’artista verifica la lezione di Josef Albers attraverso una costruzione coloristica-tonale dei tronchi, dei rami e delle radici, in relazione anche agli ambienti piatti che li circondano. È come se Testa perseguisse lo scopo ultimo di allenare l’occhio per il colore, convinta che solo la pratica consegni al pittore gli strumenti giusti per operare; del resto lo studio teorico dell’ottica e dei sistemi cromatici storicamente non sono stati sufficienti a sviluppare una certa sensibilità per la luce. L’artista invece, si fregia di un’acuta percezione estetica, risultando semplice ed esemplificativa, in ultima analisi altamente raffinata. L’apice di questa eleganza formale è l’opera Notturno, dove le superfici piatte sviluppano un volume grazie alla luminosità del colore e la prospettiva è un sistema in cui si coordinano forme diverse in uno spazio unitario.
Gli autori delle opere prese in disamina finora hanno lasciato poco spazio alla spontaneità, in favore di uno studio attento e rigoroso. Ma all’interno del piccolo gruppo scelto per esporre nella prestigiosa galleria Sartori di Mantova, non potevano mancare due artisti che si muovono con scioltezza all’interno del perimetro eccezionalmente spontaneo dell’arte informale: Fernanda Colangeli e Marco Iannetti.
Quest’ultimo si presenta in tutto e per tutto come erede di Gabriella Capodiferro, avendo una capacità unica di leggere le opere della sua maestra e figura di riferimento dai tratti materni, e poi di riproporne gli elementi identificativi in quadri più contemporanei. Si riconosce infatti a Capodiferro il merito di avere aderito a quei classici valori estetici formali che hanno reso grande la storia dell’arte italiana e di non averli mai traditi, nemmeno quando le sperimentazioni si sono fatte più radicali. E Marco Iannetti riprende questo linguaggio specifico, fatto di linea, colore, luce, volume, spazio, composizione, avvalendosi però di una tecnica nuova. Lo dimostrano già i tempi di esecuzione dell’opera, che si restringono rispetto a quelli di Capodiferro e si nutrono della freschezza data dall’immediatezza e dalla spontaneità, e lo confermano la chiarificazione degli sfondi mai stratificati, insieme all’introduzione dell’uso di pennarelli che rendono vividi i paesaggi della mente.
In ultima istanza, le opere di Iannetti sono liriche strutturate in pennellate anziché in versi, accompagnate dal suono dei colori che magistralmente vengono calibrati a seconda dei toni e dei timbri. Queste composizioni poetiche hanno dentro una musicalità che da una parte ha chiaramente introiettato le forme tradizionali di un’arte classica, dall’altra tuttavia si presenta come un componimento libero dell’arte contemporanea.
Chi fa della sua libertà di espressione un baluardo della propria poetica è Fernanda Colangeli, che muove da un’ipotesi spaziale/temporale a priori per arrivare ai giudizi estetici: il campo visivo del quadro è già uno spazio su cui agire, inserito in un tempo presente, e il radicamento dell’artista nel qui e ora la mette nella condizione di poter godere appieno dell’esperienza pittorica. La sua presenza si avverte in ogni dove e ha il potere di generare empatia nell’animo dello spettatore, che si sente rapito dallo spettacolo delle sue creazioni. Del resto è semplice sentirsi vicini ad opere d’arte che sono espressione di idoli, intesi come oggetti di ammirazione, più o meno riconoscibili (la macchina nera in Irruzione, l’elemento acquatico in Desiderio di libertà, il corpo celeste dell’Ultimo sole). Ogni idolo si forma nella psiche umana e serve al pensiero, ma il pensiero stesso lo verifica, smitizzandolo e tramutandolo in pittura.
Il processo creativo di Colangeli, così come le bellissime sfumature di colore che si configurano come intonazioni espressive del linguaggio artistico, non si riferisce alla lezione di Albers, se non in quelle implicazioni imprevedibili che il lavoro del maestro ha avuto nella spazialità espansiva e puramente cromatica di Rothko.
Questa è l’ennesima dimostrazione di come il nostro gruppo di artisti abbia a tal punto sviluppato una sua professionalità da poter viaggiare secondo rotte diverse, pur partendo dallo stesso principio.
Colangeli, De Palma, Evangelista, Iannetti, Michetti, Orlandi, Testa incarnano lo spirito della scuola d’arte di Gabriella Capodiferro, che ha sempre attivato e sempre attiverà in ogni discepolo il proprio e autentico genio creativo.