Ridisegnare lo spazio – MARINA CANEVE, GIULIA MARCHI, ANDREAS GEFELLER, MASSIMO VITALI – LABS Contemporary Art
Ridisegnare lo spazio
MARINA CANEVE, GIULIA MARCHI, ANDREAS GEFELLER, MASSIMO VITALI
A cura di Angela Madesani
Opening 12 febbraio 2022, h 16:00 / 21:00
15 febbraio – 5 aprile 2022
MAR – SAB 10 – 13 / 15 -19 e su appuntamento
LABS Contemporary Art è lieta di presentare, sabato 12 febbraio, Ridisegnare lo spazio, a cura di Angela Madesani. La mostra propone i lavori di quattro artisti che lavorano con il mezzo fotografico: Marina Caneve, Giulia Marchi, Andreas Gefeller e Massimo Vitali.
Il filo conduttore della mostra è l’idea di una rilettura dello spazio attraverso il linguaggio fotografico.
Nelle grandi foto di Massimo Vitali lo spazio naturale diviene spazio sociale. Scrive Angela Madesani nel testo che accompagna la mostra: «In mostra sono due grandi foto dai toni scuri. Qui tutto è lava, tutto è duro e pungente e la luce cambia molto velocemente. Vitali ridisegna lo spazio, lo rimisura attraverso un’altra categoria. Il suo è uno spazio sociale, fortemente antropizzato che possiamo
collegare alla sua formazione.»
Andreas Gefeller guarda lo spazio architettonico dall’alto, mutando la percezione che solitamente ne abbiamo, creando delle visioni zenitali. Il suo è il tentativo, riuscito, di mutazione percettiva e dunque di riproposizione dello spazio. Continua Madesani: «Per quanto sia una questione inutile e obsoleta, viene spontaneo domandarsi di fronte a che tipo di operazione fotografica ci troviamo. È
documentazione? Per certi versi sì, perché nulla è stato aggiunto e tutto è perfettamente corrispondente alla realtà. Al contempo, però, bisogna rendersi conto che la prospettiva proposta nell’immagine, in questa modalità, non è mai esistita. Il fruitore potrebbe pensare di trovarsi di fronte a un’immagine reale, istantanea, ma così non è.»
Quello proposto da Giulia Marchi è uno spazio concettuale, in cui la lettura dell’artista svela dimensioni ulteriori. In mostra due lavori della serie Fundamendal che è il risultato di uno studio approfondito sui testi dell’architetto contemporaneo olandese Rem Koolhaas. Il lavoro nasce dal desiderio di mettere in relazione la ricerca artistica con gli scritti di Koolhaas dedicati al concetto di spazio e dell’uso che ne facciamo.
Quelli di Marina Caneve qui proposti sono degli still life, in cui gli oggetti riescono a disegnare la dimensione spaziale attraverso l’essenza delle forme, in stretta relazione con lo spazio naturale in cui sono contenuti.
Gli artisti ai quali facciamo riferimento guardano, attraverso la camera, lo spazio che hanno di fronte e lo interpretano, lo leggono, lo disegnano, lo propongono al di là di una dimensione prettamente oggettiva.
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Ridisegnare lo spazio di Angela Madesani
L’idea che attraverso la fotografia possa essere ridisegnato lo spazio mi affascina da molto tempo. Numerosi sono gli artisti nella cui ricerca potremmo scorgere tale tentativo, qui ne abbiamo scelti solo quattro appartenenti a differenti generazioni, con storie diverse.
Gli artisti ai quali facciamo riferimento guardano, attraverso la camera, lo spazio che hanno di fronte e lo interpretano, lo leggono, lo disegnano, lo propongono al di là di una dimensione prettamente oggettiva. «Il nostro sguardo-scriveva Georges Perec1 -percorre lo spazio e ci dà l’illusione del rilievo e della distanza. È proprio così che costruiamo lo spazio: con un alto e un basso, una sinistra e una destra, un davanti e un dietro, un vicino e un lontano».
In mostra sono due grandi foto dai toni scuri di Massimo Vitali, la prima Ponta dos Mosteiros Dark (2018) è stata realizzata alle Isole Azzorre, un arcipelago dell’Atlantico, con un clima temperato. Sulle cime dei vulcani piove quasi ogni giorno e sulla spiaggia, quasi ogni giorno, c’è il sole. La luce utilizzata è naturale. Il fondo roccioso di origine vulcanica è talmente scuro che i colori dei costumi da bagno, degli oggetti spiccano. Qui tutto è lava, tutto è duro e pungente e la luce cambia molto velocemente.
È come se attraverso le persone, le presenze che popolano la sua fotografia e la rendono immediatamente riconoscibile, Vitali ridisegnasse lo spazio, lo rimisurasse attraverso un’altra categoria. Il suo è uno spazio sociale, fortemente antropizzato che possiamo
collegare alla sua formazione. «Le presenze, che sono quello che più mi attrae, hanno un’influenza notevole sullo spazio che le circonda. Le mie foto rappresentano un mix tra l’architettura del paesaggio e l’influenza che l’uomo ha sul paesaggio stesso»2.
Le presenze umane, come in questo caso, colorate e normalizzanti, sdrammatizzano la situazione. Così l’uomo con il costume azzurro che diviene una sorta di punctum, per citare Roland Barthes.
L’altra fotografia in mostra è ambientata a Marsiglia, Friche de la Belle de May-On Air (2017). Siamo verso le nove di sera sul tetto di un ex tabacchificio, che, grazie a una intelligente politica di riconversione degli spazi è stato trasformato in uno spazio che ospita molte attività, dalla ristorazione, alle mostre, alla ricreazione. Un disk jockey è piazzato sulla sua piattaforma. Ma se si guarda attentamente a destra si capisce che la situazione metereologica sta mutando, sta per arrivare una tempesta di pioggia. Soltanto mezz’ora dopo tutto quello che vediamo non esisterà più: è l’impermanenza dei fenomeni. Anche in questo caso Vitali è affascinato dalle presenze umane. È una modalità ontologica diversa dello spazio, sia da un punto percettivo che vitale, una modalità che potrebbe avere anche un taglio di matrice relazionale.
Le due foto hanno in comune i toni un po’ cupi, propongono dei rimandi alla storia dell’arte, quella post rinascimentale, alla quale Vitali è assai interessato, quando il nero entra in gioco a pieno titolo, così ne La fuga in Egitto di Adam Elsheimer del 1609, in cui appare un cielo particolare, che secondo alcuni studiosi è frutto di un’osservazione telescopica perfettamente in linea con il tempo storico in cui l’artista tedesco ha realizzato l’opera.
Uno dei temi principali della ricerca di Andreas Gefeller è la messa in discussione della percezione univoca dello spazio da parte dell’uomo. In mostra ci sono alcuni suoi lavori provenienti dalle serie Supervisions e The Japan Series.
Il primo dà l’impressione di uno spazio visivamente colto ad almeno 15 metri dal suolo, una perfetta immagine zenitale, ovvero realizzata da un punto allo zenit, che sovrasta verticalmente e perpendicolarmente la zona ripresa.
Si tratta di una riflessione di natura prospettica. Lui stesso racconta che quel lavoro è nato durante un pic nic con un amico, che si era addormentato. Gefeller ha iniziato così, per passare il tempo, a giocare con la macchina fotografica analogica e a fotografare tutto ciò che aveva accanto a sé. Camminando si è messo a fotografare ogni dettaglio di spazio in verticale dall’alto. In seguito, tornato in studio, ha ritagliato le immagini provinate e ha creato un collage che gli ha fatto percepire questo interessante punto di vista sopra il suolo. Nel corso del tempo si è quindi specializzato in quel tipo di linguaggio, anche attraverso l’uso del computer. Il suo è un evidente tentativo, riuscito, di mutazione percettiva e dunque di riproposizione dello spazio.
Per quanto sia una questione inutile e obsoleta, viene spontaneo domandarsi di fronte a che tipo di operazione fotografica ci troviamo. È documentazione? Per certi versi sì, perché nulla è stato aggiunto e tutto è perfettamente corrispondente alla realtà. L’immagine è traccia del vero, è indicale, le dimensioni delle cose e la loro posizione spaziale sono perfettamente corrette. Al contempo, però, bisogna rendersi conto che la prospettiva proposta nell’immagine, in questa modalità, non è mai esistita. Il fruitore potrebbe pensare di trovarsi di fronte a un’immagine reale, istantanea, ma così non è. I singoli scatti sono frutto di un lungo processo che dura ore, a volte giorni, in alcuni casi, i più complessi, anche mesi.
Supervisions è sia documentazione che costruzione dello spazio, perfettamente in linea con la tematica proposta dalla mostra.
Con la stessa modalità operativa Gefeller ha lavorato ad alcuni scatti di The Japan Series3.
In quell’occasione ha fotografato gli onnipresenti pali dell’elettricità con il loro groviglio di cavi, collegamenti e apparecchiature tecniche. Affascinato dall’idea che le cose tecniche prive di vita, come cavi e fili telefonici, proliferano, crescono e sembrano sfuggire al controllo umano, dando vita a forme che richiamano quelle della natura. Mentre la natura viene addomesticata a tal punto da apparire una sorta di oggetto tecnologico. È una relazione a chiasmo, incrociata.
La riflessione in questo caso è sulla finzione che imperversa nel nostro mondo in cui si crea come una terra di mezzo tra essere e apparire, dalla quale l’artista tedesco è profondamente attratto. È un luogo tra documentazione e costruzione, tra caos e ordine, tra vita e morte, tra tecnologia e natura, tra rappresentazione e dissoluzione, tra virtualità e realtà, che è stata ed è oggetto di riflessione precipua nella ricerca di Gefeller, è una sorta di fil rouge che l’attraversa. In tal senso la sua osservazione nei confronti del circostante è una sorta di rilettura dello stesso, al di là di facili dogmatismi e di letture obbligate.
Fundamental è il titolo della serie alla quale appartengono i due lavori in mostra di Giulia Marchi. Riprende il titolo che Rem Koohlas ha dato all’edizione da lui curata della Biennale di Architettura di Venezia4 nel 2014. La riflessione dell’architetto olandese, che qui riportiamo è sul concetto di Junkspace, spazio spazzatura. «(…) Il Junkspace è il doppio corporeo dello spazio, un territorio di visione compromessa, di aspettative limitate, di serietà ridotta.
È un Triangolo delle Bermuda dei concetti, una capsula Petri abbandonata: cancella le distinzioni, mina alla base ogni risoluzione, confonde l’intenzione con la realizzazione.
Sostituisce la gerarchia con l’accumulo, la composizione con l’addizione. (…) Si presenta come un’apoteosi, spazialmente grandiosa, ma l’effetto della sua ricchezza è una vacuità̀ estrema, una viziosa parodia d’ambizione che erode sistematicamente la credibilità̀ del costruire, forse per sempre…»5.
Arriverà, dunque, un momento, abbastanza prossimo, in cui dovremo trovare un canone estetico per la spazzatura, per lo scarto, per il residuale, che sarà oggetto di trasformazione.
Un concetto che supera l’idea di Terzo paesaggio coniata da Gilles Clément. In mostra sono due grandi immagini di Giulia Marchi, tratte da questa serie, realizzata nell’ala nuova del Museo della Città a Rimini6. In una lo spazio vuoto e sono messi in luce gli elementi fondamentali dell’architettura, nella seconda l’artista ha collocato una sorta di scultura, costituita da un pezzo di legno di risulta, prelevato dalla spazzatura presente sul luogo. Esso cambia completamente la percezione dello spazio.
Il suo tentativo, riuscito, è quello di conferire un’estetica formale a materiali di scarto. «Il lavoro nasce dal desiderio di mettere in relazione la mia ricerca artistica con gli scritti di Koolhaas dedicati al concetto di spazio e all’uso che ne facciamo. Il mio lavoro fotografico è stato concepito e pensato solo con quello che lo spazio mi metteva a disposizione, nessun artificio, nessuna intrusione, nessuna luce artificiale. In queste fotografie appaiono solo gli oggetti che sono riuscita a recuperare dalla spazzatura, ciò che era destinato ad essere definitivamente eliminato»7.
L’estetica di tali immagini riprende la pulizia formale del Suprematismo russo, alle radici del moderno minimalismo. Quanto Giulia Marchi riesce a creare è una visione non canonica di spazio. La particolare inquadratura fa sì che quella che ci troviamo di fronte possa quasi sembrare una stanza senza pareti. «In un’immagine ridisegno lo spazio anche fisicamente, aggiungendo un elemento e nell’altra, invece, modifico lo spazio semplicemente guardando da diversi punti di vista. A seconda della tipologia di relazione tra gli elementi, cambia anche la visione che se ne dà e se ne percepisce»8.
Marchi riabilita alla visione elementi destinati allo scarto. Il riferimento a Koolhas è ambivalente e se in un’immagine interviene lei stessa, nell’altra riconosce una forma fondamentale e la gestisce per vedere lo spazio in maniera ancora una volta diversa.
Le opere di Marina Caneve qui proposte fanno parte del lavoro A fior di terra9, realizzato per una rete di comuni del Veneto10. Quello che le interessa, come sempre, è l’interazione tra un paesaggio più canonico costituito da elementi concreti, materici, scientifici, tecnici e degli aspetti magici-mitici mitologici vernacolari. I frammenti protagonisti di queste foto non sono altro che elementi costitutivi del paesaggio. L’ idea di ricomposizione ha origine nella cultura dell’antica Grecia, in cui è fondamentale l’interdisciplinarietà del pensiero. In tal senso mi tornano alla mente le cosmologie, il tentativo di ricostruzione del cosmo, appunto, degli antichi filosofi, a partire dalla scuola di Mileto.
«È importante specificare che nella cultura greca trova le radici l’atteggiamento interdisciplinare come io lo intendo- ne parlava già Plutarco- ovvero una contaminazione tra cultura e saperi esperti, da affrontare in maniera tutt’altro che dilettantesca quanto piuttosto con apertura ed empatia»11.
In alcune immagini della serie con pezzi di pietra, posti casualmente sulla sua finestra dall’ultimo scalpellino rimasto di Lusiana Conco12, Caneve ha ricreato una spazialità, senza interventi, se non utilizzando uno sfondo neutro, che si contrappone a quello specchiante della finestra.
Una delle immagini, in cui si intravvede il disegno di una colonna è il dettaglio di una tomba di marmo, che così fotografato si pone in rapporto alle pietre povere del muro di cinta del cimitero, in una sorta di contrasto materico.
«Mi incuriosisce visitare i cimiteri per vedere come l’elemento più caratteristico di un luogo venga trattato in un luogo così importante». Il cimitero è, infatti, un luogo simbolico, fortemente rappresentativo, soprattutto nelle piccole comunità come questa.
La sua non è una documentazione, ma il frutto di un’esplorazione dalla quale pescare dei dettagli portanti per la comprensione della totalità. Attraverso i frammenti viene a crearsi un’inevitabile ricostruzione dello spazio. Frammenti che non sono solo, come qui, piccole porzioni, ma vere e proprie sezioni di paesaggio, che sono tenute insieme attraverso le differenti parti del tutto.
Per l’allestimento Caneve ha pensato di porre sul muro della galleria una grande immagine, una sorta di wall paper, che raccolga i diversi elementi. L’immagine di sfondo presenta ragazzi e ragazze nel territorio, è la presenza umana, che non è al centro, ma sicuramente è una parte del tutto, con un’ombra che costituisce una sorta di soglia, di limen, richiamo a una dimensione di antica sacralità.
Le opere degli artisti coinvolti non offrono certezza intorno al tema dello spazio. Piuttosto dubbi. Mi piace dunque chiudere il testo con un’ulteriore citazione di Perec: «Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, disegnarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo»13. Così per gli artisti in mostra, che ogni volta conquistano lo spazio a fronte di studi e ricerche che li e ci traghettano verso differenti letture possibili del circostante.
Note
1 G.Perec, Specie di spazi, ed.italiana Bollati Boringhieri, Torino, 1989; p.97 (ed francese 1974).
2 M.Vitali da una conversazione con chi scrive, dicembre 2021.
3 Gefeller era stato invitato a partecipare alla manifestazione European Eyes on Japan.
4 In quel caso Fundamentals.
5 R.Koolhaas, Junkspace Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, Quodlibet, Macerata, 2006.
6 Si tratta di uno spazio ormai in disuso, che era destinato ad accogliere la collezione di arte contemporanea.
7 G.Marchi in Fundamental, Galleria Materia, Roma, 2017.
8 G.Marchi, da una conversazione con chi scrive, dicembre 2021.
9 Il marmo, infatti, affiora dalla terra. Quello che qui si estratto per molti anni è di tre tipologie: rosso,
biancone e verdello.
10 L’operazione è stata realizzata nell’ambito del progetto ‘Comunità/ Cultura/Patrimonio’ finanziato da un bando di Fondazione Cariverona
11 M.Caneve in conversazione con chi scrive, dicembre 2021.
12 Il piccolo paese, facente parte dell’Altipiano di Asiago 7 Comuni, dove Marina Caneve ha fatto la sua artist residence, è vissuto nel corso degli anni dell’estrazione del marmo, estrazione che gli ha procurato una fiorente economia. Da dieci anni a questa parte l’estrazione è in declino, essendo la richiesta diminuita
esponenzialmente.
13 G. Perec, op.cit.; p. 110.
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Marina Caneve è nata a Belluno nel 1988, dove vive e lavora.
La sua ricerca fotografica esplora come la nostra conoscenza è plasmata, attraverso un approccio basato sulla ricerca che si confronta con diverse prospettive.
Mostre collettive (selezione 2021 – 2020):
2021 Atlante Architettura Contemporanea, a cura di Matteo Balduzzi, Alessandra Cerroti e Luciano Antonino Scuderi,
Triennale, Milano
2021 Di roccia, fuochi e avventure sotterranee, a cura di Alessandro Dandini de Sylva, MAXXI, Roma
2021 Bridges are Beautiful, a cura di Jon Uriarte, GETXOPHOTO, Spagna
2021 Reset, a cura di MAPS, De Markten, Bruxelles, Belgio
2020 Not only history, but our memories, a cura di Carlo Sala, Podbielski Contemporary, Milano
2020 IAlp, a cura di Giangavino Pazzola e Veronica Lisino, Museo Nazionale della Montagna, Torino
Giulia Marchi è nata a Rimini nel 1976, dove vive e lavora.
Ha studiato lettere Classiche all’Università degli Studi di Bologna.
Ricerca letteraria e approccio concettuale sono precisi stilemi del suo linguaggio fotografico.
Mostre personali (selezione):
2021 Artissima, Torino
2020 La natura dello Spazio logico, a cura di Angela Madesani, LABS Contemporary Art, Bologna
2015 Rokovoko, Matèria, Roma
2014 Multiforms, Photographica Fine Art Gallery, Lugano
Mostre collettive (selezione 2021 – 2020):
2021 Dismantling the silence, Miart, Milano
2020-21 Stasi frenetica, Artissima Unplugged, GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino
2020 Multiforms, LABS Contemporary Art, Bologna
2020 Resistance & Sensibility, collection Donata Pizzi, Fotografie forum Frankfurt, Frankfurt am Main
Andreas Gefeller è nato nel 1970. Vive e lavora a Düsseldorf.
Ha studiato fotografia all’Università di Essen, Germania. Gefeller è stato nominato nel 2001 dalla Deutsche Fotografische
Akademie.
Mostre personali (selezione):
2021 Andreas Gefeller, Fotoarbeiten, Städtische Galerie Neunkirchen, Germania
2020 Andreas Gefeller, Thomas Rehbein Gallery, Colonia, Germania
2020 Andreas Gefeller: Mapping Perception, Atlas Gallery, Londra
Mostre collettive (selezione 2021 – 2020):
2021 Civilization. The Way We Live Now, Mucem, Marsiglia, Francia
2020 Remember Art Cologne, Thomas Rehbein Gallery, Colonia, Germania
2020 Civilization. The Way We Live Now, Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki, Auckland, Nuova Zelanda
Massimo Vitali è nato a Como nel 1944. Vive e lavora tra Lucca e Berlino.
Dopo il liceo si trasferisce a Londra, dove studia Fotografia al London College of Printing.
Mostre personali (selezione):
2021 Pienovuoto, Forte Belvedere – Museo del ‘900, Firenze
2021 Leporello 2020. No Country for Old Men, Visionarea, Auditorium Conciliazione, Roma
2020 Human Constellations, Museo Ettore Fico, Torino
2020 New Normal, La Fab, Parigi
2019 Massimo Vitali: Short Stories, Mazzoleni, Londra
Mostre collettive (selezione 2021 – 2020):
2021 Partance, Villa Théo, Le Lavandeu, Francia
2021 The Families of Man, Museo Archeologico Regionale di Aosta
2021 RIVA Project, MAD Murate Art District, Firenze
2021 Natura Risponde, Associazione 21 – Ex complesso officine Gay, Lodi
2021 Electronic: From Kraftwerk to The Chemical Brothers, Design Museum, Londra
2020 Civilization. The Way We Live Now, Auckland Art Gallery Toi o Tāmaki, Auckland, Nuova Zelanda
LABS Contemporary Art
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