Stefano Ottaviani, testo critico di Francesco Weiss

Potrebbe riuscire complesso concepire come da entità che nulla hanno a che fare con l’umano derivi, in maniera oggigiorno irrefutabile, non solo l’uomo in sé, ma pure l’uomo per sé; l’uomo sociale e collettivo, l’uomo delle metropoli e delle mode, delle realtà urbane e suburbane, l’animale che subisce ed esercita carisma, che scende nelle piazze e fa politica, che scrive poemi ed immagina virtù, che s’affanna a trovare spazi e pretesti atti a soddisfare un precipuo bisogno di auto narrazione significato attraverso la parola arte.

Tale escrezione biologica muovesi in strutture e sovrastrutture di molto eccedenti il livello squisitamente naturale: non è neanche possibile figurare quanto essa disti dalla mera materia e dalle sue leggi normali.

Eppure quell’inconcepibile interazione nucleare tra diversi stadi energetici, quelle dialogiche perequazioni gravitazionali che niente recano in sé del linguaggio d’un sedicente simulacro di Dio schiudono il mondo che noi abitiamo ed osserviamo, e l’altro universo che tanto ci fa sete ed inquietudine, e quella mente somatica così misteriosa e vagheggiata onde siamo possessori e mai padroni.

Si segua codesta elucubrazione cromatica: un globo indefinito e primordiale, effigie dell’incoscienza e dell’in sé, il quale coli grossolanamente secondo un azzardo di combinazioni che sortiscano un poeta come Pasolini, un idolo generazionale come Bowie, realtà sociali e sentimentalità inconfondibilmente umane: questa è rappresentazione evocativa d’una funzione di stato che ci esplica bensì un punto di cominciamento ed uno di contemporaneità, ma che non ci permette di conoscere alcunché del suo percorso e del suo determinante. Una fallace suggestione che tuttavia rende quasi palese una continuità altrove ed altrimenti in cogitabile.

Si ravvisa in delle geometrie così apparentemente sterili l’Aurora d’una congerie di accezioni evenemenziali interminabili; ed in mezzo a queste, se si ha fortuna, potrebbe sopraggiungere l’incontro con due occhi che vedono e che sanno di vedere, che soffrono e sanno di soffrire; che si smarriscono e sanno di smarrirsi in una fluidità mondana che pare stillata dai rigurgiti del primo nodo materiale.

Francesco Weiss